Il governo scontenta sia Uber sia i taxisti
Il decreto per mettere ordine nel trasporto pubblico risulta un ibrido: non media nel settore né apre un vero mercato.
Itassisti non ci stanno. Non si fidano di questo governo di matrice renziana, accusato di stare dalla parte di Uber e delle multinazionali della Silicon Valley, e difendono compatti la loro linea del Piave: i taxi e le auto a noleggio con conducente (gli Ncc che usano le applicazioni tipo Uber) appartengono a due mercati diversi che non possono farsi concorrenza, uno è un servizio pubblico, l’altro è privato. E quindi i punti cardine su cui poggia il decreto di riforma del settore messo a punto dal ministero dei Trasporti, che concede un po’ più di libertà agli autisti aderenti alla piattaforma Uber (niente rientro in garage tra una corsa e l’altra ma obbligo di operare in un’area ben definita)defini e prova a liberalizzare le licenze e le tariffee dei taxi, nonn piac- ciono alla ventina di sigle sindacali dei tassisti (di cui circa la metà avevano aderito alla protesta di giovedì 23 marzo). Ma il paradosso è che anche i paladini del mercato sono insoddisfatti: la linea del governo, infatti appare lontana dalle indicazioni fornite al Parlamento dall’Antitrust, che sollecita una coraggiosa riforma del mercato del trasporto pubblico non di linea, aprendolo a nuove forme di mobilità stile Uber, pur regolamentandole sul fronte della sicurezza e delle tasse.
In ballo c’è il valore delle licenze dei tassisti, che valgono a Milano e Roma circa 150 mila euro e che si svalutano per colpa della concorrenza. Uber sarebbe favorevole a discutere la proposta dell’Antitrust di creare un fondo finanziato dai nuovi entranti nel mercato per compensare la perdita del valore patita dai tassisti. I quali, per ora, non ci sentono neppure da quest’orecchio. Così, alla fine, il governo rischia di partorire una riforma debole che scontenta tutti. (G.F.)