Voucher, un’occasione persa
Come per le società partecipate, anche sul mercato del lavoro l’Italia sembra impermeabile a ogni tipo di riforma. La decisione di abolire completamente i coupon è sbagliata. E farà solo aumentare il «nero».
Quella dei voucher è una brutta vicenda, per tre motivi: i tempi, i modi, il merito.
I tempi.
Il 14 marzo, il Consiglio dei ministri fissa la data del referendum per la loro abrogazione.
Il 17 marzo, solo tre giorni dopo, il successivo Consiglio getta la armi prima ancora di combattere le resistenze sindacali e con decreto legge abroga del tutto il sistema dei voucher, dopo averlo rafforzato solo un anno prima. Scusateli: col Jobs act di Renzi - una di quelle riforme che tanto sono state brandite per dimostrare, anche a Bruxelles, la nuova stagione di riforme strutturali - hanno scherzato.
Certo, ci viene risparmiata una campagna referendaria a suon di logori e irrealistici slogan sindacali, ma non è una bella pagina politica, la resa preventiva.
E, a proposito di tempi, è una triste coincidenza che essa sia avvenuta proprio nei giorni in cui cade l’anniversario dell’omicidio di Marco Biagi, il professore che aveva visto lontano sull’esigenza che la legislazione si adegui al mercato del lavoro, se vogliamo che l’obiettivo sia favorire la maggiore occupabilità possibile, al di là di vecchie e nuove ideologie.
I modi.
Il decreto legge, si legge nella sua premessa, è giustificato dalla «straordinaria necessità e urgenza di superare l’istituto del lavoro accessorio al fine di contrastare pratiche elusive». Che dei voucher si sia potuto abusare, come di ogni forma contrattuale, è indubbio. Esistono per questo istituti e soggetti pubblici preposti al controllo e alla ispezione dei rapporti di lavoro. Ma, va da sé, l’abuso non è una novità. Né, quindi, una necessità straordinaria e urgente.
Il merito.
Abrogare il lavoro accessorio vuol dire rendere più difficile il regolare svolgimento di molte prestazioni che, per loro natura e per la natura di un mercato del lavoro più incerto e imprevedibile del secolo scorso, non sopportano le rigide maglie del lavoro dipendente. Con la contestuale scomparsa dei lavori a progetto, queste prestazioni troveranno ora più facile accomodamento nel lavoro nero.
Prestazioni che, in fin dei conti, contano molto meno di quanto si immagini. Dal 2011 al 2015, i voucher venduti sono passati da 15 milioni a 115 milioni, per un peso economico rispetto al lavoro dipendente privato che è andato dall’1,5 all’8,8 per cento. Nel 2016, appena dopo il Jobs act, sono stati venduti 300 mila voucher in più rispetto all’anno precedente. La loro fortuna, quindi, non è storia recente del Jobs act, ma è andata crescendo negli anni perché ha consentito di far fronte in maniera legale e poco costosa a mutevoli e disparate esigenze.