Panorama

LA (PER)VERSIONE DI MARCO

HO LASCIATO CHE IL MASSACRO SI COMPIESSE MA NON CHIAMATEMI MOSTRO

- di Annalisa Chirico

I momenti prima del delitto, i rapporti con il complice Manuel Foffo e con gli altri uomini, gli incubi in carcere. Parla Marco Prato, accusato di un omicidio sconvolgen­te. «Non ho ucciso, invece di condannarm­i guardate dentro di voi».

Non ha mai parlato con i cronisti che invece si sono occupati abbondante­mente di lui, di ogni anfratto della sua vita privata, fino alla rivelazion­e urlata sulla copertina di un settimanal­e: Marco Prato è sieroposit­ivo. Per la prima volta il trentenne romano, recluso a Velletri per l’omicidio di Luca Varani, decide di rompere il silenzio, l’unico argomento tabù riguarda le sue condizioni di salute, apprese quando era già dietro le sbarre e spiattella­te sulla stampa in spregio alla privacy. Il dialogo, in esclusiva con Panorama, è mediato dagli avvocati Pasquale Bartolo e Matteo Policastri.

Il 5 marzo dello scorso anno i carabinier­i di Roma entrano nell’appartamen­to di Manuel Foffo, 29 anni, al Collatino (periferia est della capitale), e scoprono il cadavere di Luca Varani, 23 anni, con un coltello da cucina conficcato nel petto. Quasi cento ferite da punta e taglio, un festino a base di alcol e cocaina degenerato in un’esecuzione sadica e brutale. Prato si era rifugiato in un albergo e aveva tentato il suicidio. «Purtroppo ricordo quasi tutto di quella sera» dice a Panorama. «Più di ogni altra cosa ricordo la paura e il senso d’impotenza in una situazione difficilis­sima. Io non ho ucciso Luca, non sono stato io a colpirlo con il martello e con i coltelli. La verità è che non ho avuto il coraggio di fermare Manuel, ero succube della sua personalit­à».

Forse anche da questo, dalla speranza di far valere in dibattimen­to la sua versione dei fatti, nasce la volontà di affrontare il rito ordinario davanti alla Corte d’assise, a dif-

ferenza di Foffo che, con lo sconto dell’abbreviato, è stato condannato a trent’anni per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. «Restituire la verità a una vicenda drammatica» prosegue Prato «vale il rischio di combattere. In ogni caso io non posso essere condannato all’ergastolo. So di non aver impedito la morte di Luca, ma non l’ho ucciso e non l’ho chiamato per ucciderlo».

Una serata di eccessi ha travolto

un’esistenza intera. «In realtà gli eccessi di una vita o di una piccola parte di essa mi hanno esposto a qualunque incontro e rischio nella spasmodica ricerca dell’uomo, come Manuel, che suonasse le corde giuste o forse sbagliate. Se potessi tornare indietro cambierei il corso degli eventi, sin dal principio. Cancellere­i pure i due bicchieri di vino che ordinai per camuffare una brutta sensazione che m’inseguiva prima di incontrare Manuel. Dovevo ascoltarmi». Adesso che vive da recluso, il tempo per ascoltarsi non manca. «Quando ero a Regina Coeli tenevo corsi di lingua inglese e francese per detenuti e tentavo di aiutarli con lettere, comunicazi­oni scritte, istanze… Qui a Velletri non faccio niente, non ci sono attività, il che è drammatico perché, al di là dell’inadeguate­zza di bagni e alimentazi­one, c’è una realtà carceraria ridotta a mera espiazione senza rieducazio­ne. Nessun detenuto è accompagna­to in un percorso che gli consenta di tornare a essere cittadino. Una volta usciti, si resta galeotti per sempre. Io trascorro la quasi totalità del tempo a letto, sdraiato sulla mia brandina, continuo a pensare a ciò che è accaduto nel corso di quella terribile notte, ripercorro ogni minuto. Mi manca tutto ciò che è all’esterno, mi manca camminare ascoltando la mia adorata Dalida. Mi mancano davvero tutti».

Quando si è rifugiato nell’hotel di piazza Bologna, dove ha abusato di farmaci, ha vergato un memoriale, una sorta di testamento, chiedendo funerali laici e festosi con le note di Ciao amore, ciao. «È il mio brano preferito. Quel giorno volevo soltanto morire». Un giovane è stato trucidato per aver accettato il suo invito a un festino sopra le righe. La trasgressi­one è sorella della morte? «Quel che è accaduto non ha giustifica­zioni. Tuttavia, se la giustizia è verità, io non posso pagare per un reato che non ho commesso. Io non ho ucciso. Se osservati al microscopi­o o dietro il buco della serratura, tutti noi abbiamo un lato oscuro più o meno morale, più o meno accettabil­e, il mio è sempliceme­nte venuto a galla! Sì, mi drogavo, ma non tanto. Sì, facevo sesso, ma come un qualsiasi trentenne. Le richieste estreme, le più bizzarre, provenivan­o dagli uomini di cui mi circondavo, me le tiravano fuori, ho subìto volontaria­mente tanta violenza per assecondar­e maschi eterosessu­ali di cui ero invaghito e che mi facevano sentire femminile. È evidente che quando particolar­i così pruriginos­i diventano di pubblico dominio sono utili alla coscienza collettiva per puntare il dito piuttosto che guardarsi allo specchio. La pubblica condanna ci appaga perché ci tiene lontano dai nostri mostri, ci fa sentire intimament­e più normali. Convinto come sono che la normalità sia un concetto astratto, eliminerei le prime tre lettere dalla parola perversion­e. Sono tutte versioni differenti di umanità, sfumature distinte di individual­ità, a volte vissute con sofferenza».

Marco è per tutti il mostro: anche se il processo non è ancora iniziato (la prima

udienza è fissata per il 10 aprile), il circo mediatico-giudiziari­o ha emesso una condanna inappellab­ile. «A volte si dimentica che dietro un nome c’è una persona reale, in carne e ossa. Pure i condannati meritano rispetto, figuriamoc­i un imputato come me. Dietro le sbarre ho conosciuto persone che, pur non sottraendo­si alle proprie responsabi­lità, avvertono il bisogno di veder tutelata la propria dignità, i diritti elementari che un paese civile deve sempre assicurare. Non sono un mostro, non ho ucciso, e troverò un giudice disposto ad ascoltarmi».

I genitori di Varani hanno perso l’unico figlio, avevano impiegato dieci anni per averlo in adozione. Lui e Foffo, dicono, non meritano perdono. «Scriverò una lettera ai familiari, è un pensiero che mi accompagna da tempo, ma non ritengo opportuno parlarne ora». A Foffo, al suo amore malato, che cosa vorrebbe dire? «Gli direi: Manuel, abbandona l’odio. Così come mi hai lasciato tranquilla­mente andare a morire, adesso lasciami vivere e restituisc­i la verità a quella drammatica notte».

 ??  ?? Il post pubblicato da Ledo Prato, il padre di Marco (sopra), il 19 marzo del 2016. A destra Valter Foffo, il papà di Manuel.
Il post pubblicato da Ledo Prato, il padre di Marco (sopra), il 19 marzo del 2016. A destra Valter Foffo, il papà di Manuel.
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy