C’era una volta mio padre: Charlot
Il silenzio imposto in casa quando lavorava, il barbecue, amici come Truman Capote. Eugene Chaplin racconta cosa significa essere figlio di un mito a 40 anni dalla sua scomparsa.
Sono trascorsi 40 anni dalla morte di mio padre Charlie Chaplin. E io solo da poco sono riuscito a fare la pace col suo mito. A lungo mi ha dato fastidio che il mondo se ne fosse appropriato senza sapere davvero che persona fosse». Eugene Chaplin, 63 anni, figlio del più grande interprete nella storia della comicità, ha scelto il Premio Charlot che la città di Salerno da 29 anni dedica a suo padre all’Arena del Mare, per raccontare come fosse esaltante e anche impegnativo vivere insieme all’icona del cinema muto. Custodisce la bombetta e il bastone di Charlot? Nel salotto tengo il divano di City Lights, quando lo rivelo agli ospiti che ci sono seduti sopra, si alzano di scatto suggestionati. Suo padre l’avrebbe voluto attore? Lui raccomandava di dedicarmi a quello che desideravo purché lo facessi al meglio. E poi odiava il mondo del cinema, specialmente Hollywood dopo che era stato costretto a lasciare gli Stati Uniti con l’accusa di essere comunista. Si trasferì in Svizzera, dove lei è cresciuto. Come era Chaplin nella vita quotidiana, un dittatore come qualcuno lo accusava di essere sul set? Mio padre subiva molta pressione perché era anche produttore dei suoi film. In casa si comportava come un padre normale, lo vedevo dopo la
scuola, non voleva che si facesse rumore quando lavorava. E lui era workaholic. Ma non era cattivo. Avere Chaplin come padre non deve essere stato così normale come dice lei… A Manoir de Ban, sul Lago di Ginevra, dove vivevamo, andava a comperare il giornale ogni giorno, si faceva curare dal medico del villaggio. Nel giorno libero della servitù, grigliava sul barbecue in giardino salsicce sempre troppo cotte all’esterno e crude all’interno. Mi accorgevo che era famoso perché appena scesi dagli aerei c’era un’automobile che ci veniva a prendere in pista e faceva lo slalom tra i velivoli. Però da piccolo lei giocava con Truman Capote, uno dei più grandi amici di suo padre… Una volta lo scrittore arrivò tutto eccitato perché aveva assistito a un’esecuzione capitale avvenuta usando il gas, mio padre si arrabbiò moltissimo. Avete mai viaggiato insieme? Siamo stati in Giamaica e Irlanda in vacanza, abbiamo fatto safari in Africa. Venivamo a Milano alla Scala. Uscivamo spesso a cena per mangiare cibo giapponese o a bere vino rosso. Ha voluto che lo seguissi sul set del suo ultimo film, La Contessa di Hong Kong con Sophia Loren e Marlon Brando. Non si è mai sentito schiacciato dalla personalità e storia artistica di un padre come Charlie Chaplin? Io ho amato mio padre come ogni figlio ama il proprio genitore. A unirci è sempre stata la passione per la commedia, l’attrazione per il circo, l’arte di strada, la sola forma di intrattenimento capace di strappare sempre un sorriso a tutti. Del resto lui veniva da lì: papà era una spugna, assorbiva immediatamente i comportamenti umani, e cercava di trasmettere ottimismo con le sue interpretazioni e parodie. L’umanità di Charlot ero lo specchio di quella di mio padre. Meglio Charlie Chaplin oppure i Rolling Stones, David Bowie, Freddy Mercury, le rock star con le quali lei, in qualità di ingegnere del suono, ha lavorato negli studi musicali del Casinò di Montreux? Mio padre amava tutti gli artisti. Ma forse la mia attività che lo avrebbe fatto più felice è stata quella di manager del Circus Nock, il più famoso della Svizzera: il circo è magia, è portare ogni volta il teatro in una città diversa col carrozzone, come Fellini. Sarebbe stato contento anche del museo (www.chaplinsworld.com) che lei ha aperto in quella che era la vostra casa di famiglia a Manoir de Ban… All’inizio mi avrebbe dato del pazzo ma poi, vedendo i bambini interagire coi personaggi dei suoi film, sono sicuro che si sarebbe divertito tantissimo. Come la gente che ancora oggi, a quaranta anni dalla morte, guarda le sue pellicole con nostalgia.