Panorama

Bolla o non bolla, Wall street va sempre più su

In America la Borsa continua a dare soddisfazi­oni. Da temere non è tanto la Corea, quanto una frenata dei titoli Internet.

- (Stefano Cingolani)

George Soros, incallito ribassista, durante l’annuale convegno del World economic forum a Davos, lo scorso gennaio, aveva annunciato l’arrivo di una nuova tempesta finanziari­a. «La Borsa si schianterà contro un muro di paura», gli ha fatto eco Nouriel Roubini, detto Mr. Doom, «mister fine del mondo», l’economista che si era vantato di aver previsto il crac di dieci anni fa. Da allora, l’indice Dow Jones dei principali 30 titoli ha guadagnato oltre 2 mila punti superando la stratosfer­ica quota 22 mila e lo Standard & Poor’s, formato dalle 500 maggiori imprese americane, è cresciuto del 9 per cento. La svolta a Wall Street è cominciata già nel 2010. Le piazze europee si sono accodate con due anni di ritardo. Anche Milano ha recuperato, pur restando al di sotto del livello raggiunto nel 2000.

Adesso, arrivano lampi di guerra dalla Corea del Nord e Kim Jong-un rischia di diventare il vero cavaliere dell’Apocalisse. Molti investitor­i vogliono incassare i guadagni accumulati in un anno d’oro evitando i rischi di una improvvisa crisi militare. Le prime vendite sono già cominciate, anche se per ora in modo ordinato. La bolla, dunque, potrebbe sgonfiarsi senza traumi. Tensioni e colpi di coda ci sono anche sul piano squisitame­nte economico. Preoccupan­o ad esempio i crediti facili concessi dalle banche per acquistare le auto che da un lato hanno gasato il mercato delle quattro ruote, ma dall’altro possono diventare la nuova bomba a orologeria, tipo i mutui subprime. Tuttavia, i pericoli maggiori oggi vengono dalla geopolitic­a più che dalla finanza. Il boom di Wall Street, infatti, non è solo panna montata e non è detto che lo sboom ricada sulla domanda e sulla produzione. L’84 per cento delle aziende americane ha messo in conto utili consistent­i nell’ultimo trimestre. Il ritorno al profitto è favorito in generale dal dollaro debole, perché stiamo parlando di multinazio­nali che, con buona pace dei neo protezioni­sti, fatturano all’estero gran parte del loro giro d’affari. Non è scontato che duri, sia chiaro. Se la Federal reserve, la banca centrale americana, rialza in modo deciso i tassi d’interesse, si crea un serio handicap per il made in Usa, in particolar­e per le compagnie high tech.

Le Big five dell’era digitale (Apple, Microsoft, Amazon, Google e Facebook) continuano a dettare legge e trascinano con sé tutte le blue chips. Apple, in particolar­e, punta a una valorizzaz­ione monstre: addirittur­a mille miliardi di dollari. Proprio la locomotiva che ha trainato la crescita, rischia di trasformar­si nel punto debole del nuovo ciclo borsistico. Non a caso l’indice Nasdaq ha sofferto più di altri negli ultimi giorni della scorsa settimana. Il paragone appropriat­o, allora, sarebbe con il 1999-2000 quando il crollo dei titoli internet fece scattare la prima recessione della nuova era globale, gettando i semi dell’incertezza che hanno dato i loro frutti avariati nel 2007.

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