Affondato due volte
L’ingloriosa fine del barcone della strage che doveva diventare un simbolo Due anni fa la tragedia del peschereccio colato a picco con oltre 700 migranti nel Canale di Sicilia. Renzi promise di recuperare i corpi e il relitto investendo milioni di euro ne
Nel cimitero di Siracusa ci sono sei lastre di marmo, conficcate sbilenche nella terra arsa. Sono tutte uguali, sembrano fantasmi e un po’ lo sono: da una parte hanno inciso un numero, dal 173 al 178, e sull’altro campeggia la scritta «Immigrato sconosciuto, deceduto nel Canale di Sicilia il 18-4-2015».
Quelle tombe sono il triste, ultimo atto di una delle più intense campagne propagandistiche dell’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi. E sono anche il silenzioso simbolo di un fallimento. Perché in quelle fosse anonime si è chiusa l’epopea del «barcone della morte»: il peschereccio affondato nell’aprile di due anni fa in acque internazionali, un’ottantina di miglia a nord di Tripoli, dov’era rimasto per oltre un anno a 370 metri di profondità con il suo drammatico carico d’immigrati, un numero tra i 700 e i 900.
All’inizio del 2016 Renzi aveva deciso che quel relitto dovesse trasformarsi in simbolo. Aveva stabilito che il «barcone della morte» andava recuperato per essere esposto a Milano, in piazza del Duomo, come monito perenne dei drammi dell’immigrazione. La decisione, va detto, non era proprio il massimo della logica: nel Mediterraneo in dieci anni sono morti almeno 15 mila immigrati, con oltre 10 mila cadaveri mai recuperati. Perché gli affogati del 18 aprile 2015 meritavano una sepoltura, e tutti gli altri no? Ma ormai l’operazione era partita, e intanto Renzi aveva già cambiato obiettivo polemico: «Piazzerò il barcone davanti al nuovo Consiglio europeo, a Bruxelles. Così a ogni riunione, invece che guardare i divani nuovi, dovranno guardare quel simbolo».
In realtà, il recupero del «barcone della morte» era stato molto più difficile di quanto immaginava l’ex presidente del Consiglio. Un primo tentativo, condotto nell’aprile 2016 da quattro navi della Marina militare, era fallito, e il peschereccio si era nuovamente inabissato. Per il secondo, che aveva coinvolto imprese private, erano state usate tecnologie ancora più raffinate, e il costo era lievitato a 10 milioni di euro.
A quel punto, nel giugno 2016, il «barcone della morte» era stato portato fino alla base Nato di Melilli (Siracusa) e collocato sotto un tendone refrigerato. A estrarre i cadaveri erano stati chiamati i Vigili del fuoco. Che si erano calati nella stiva come in un mostruoso girone dantesco, costretti a muoversi tra centinaia di corpi macerati dal mare tanto da non essere nemmeno più distinguibili l’uno dall’altro. Libero Costantino Saporito, sindacalista dei Vigili del fuoco, aveva descritto così quell’inferno: «Ci sono centinaia di corpi rimasti più di un anno sul fondo, chiusi in una stiva che poteva contenerne al massimo 40. Uomini, donne e bambini
in un unico groviglio». I resti dei migranti, tra loro fusi e confusi, erano stati estratti e suddivisi pietosamente (oltre che, spesso, casualmente) in un numero imprecisato di sacchi neri: all’inizio si era parlato di 458 «body bag», poi di 675.
Infine, il 14 luglio 2016, il governo Renzi aveva annunciato attraverso il prefetto di Siracusa, Armando Gradone, che sarebbe presto partita «l’operazione Dna»: affidata alle università siciliane, sarebbe costata 9,5 milioni. L’obiettivo conclamato era individuare geneticamente tutti i morti, per renderli riconoscibili ai parenti. Ma era impossibile identificare gran parte delle vittime, dissolte com’erano in un intreccio di ossa e liquami; ed era subito parso assai improbabile che dall’Africa potessero arrivare richieste d’informazioni sulla sorte di parenti e congiunti scomparsi, per di più corredate da campioni genetici di confronto. S’ignora se, finora, sia arrivata anche una sola domanda di riconoscimento.
La foto emblematica che Panorama pubblica in queste pagine mostra intanto com’è finita tutta la vicenda: e cioè nel caos. «È il trionfo dell’illogicità» dice Salvo Sorbello, il consigliere comunale siracusano, eletto in una lista civica, che ha scattato le immagini di queste pagine. «Sei morti sono sepolti a Siracusa, altri sette in due cimiteri della provincia; tutti gli altri non si sa dove, tra Sicilia e Calabria». Il problema è che, almeno per quanto riguarda i sei sepolti a Siracusa, i documenti ufficiali del cimitero ottenuti da Sorbello indicano che la data dell’inumazione è stata autorizzata il 3 febbraio 2016, quindi quattro mesi prima dell’avvio dell’operazione Dna. Possibile? Qualcosa non torna.
Un mese fa, Sorbello e Carlo Giovanardi, senatore del gruppo Idea, popolo e libertà, si erano presentati insieme ai cancelli della base di Melilli e avevano saputo dal suo comandante, l’ammiraglio Nicola De Felice, che lì «dall’ottobre 2016 non c’è più nulla, perché quel che dovevamo fare è stato fatto». È stato allora che Sorbello ha iniziato a fare domande sulla destinazione dei corpi. Quanto al barcone, di certo non è mai approdato né a Milano, né a Bruxelles. Sul caso anche Giovanardi ha presentato alcune interrogazioni al governo, tutte rimaste senza risposta: «Questo è stato l’ultimo, insensato e cinico spot renziano» dice. «Non sappiamo dove quei poveri morti siano finiti, né come siano state identificate le loro tombe. Perché a Siracusa ci sono i numeri, ma altrove potrebbero essere sepolti in fosse comuni».
Resta un’ultima domanda, anche se come le interrogazioni di Giovanardi non avrà risposta: quante vite avrebbero potuto essere salvate, con 20 milioni?
(Maurizio Tortorella)