IO, CHE NON ERO UNABOMBER, VIVO PRIGIONIERO DI QUELL’INCUBO
Elvo Zornitta è stato accusato di essere «il mostro» che con i suoi ordigni ha terrorizzato il Nord-est. Cinque anni di indagini e di calvario per arrivare a un proscioglimento clamoroso: del tutto estraneo ai fatti. Intanto, però, la sua esistenza è stat
Un bombarolo per gli investigatori, un «mostro» per i giornali. In realtà, solo un ingegnere. Nel Nord-est impazzito e spaventato, che dal 1994 dà la caccia allo squilibrato che piazza ordigni, le indagini di cinque procure si concentrano su un uomo «mite» di 47 anni, dirigente d’azienda, sposato e con una figlia. È il 26 maggio 2004. Ad Azzano Decimo, in provincia di Pordenone, Elvo Zornitta viene indagato e ritenuto di essere «Unabomber», il criminale che aveva compiuto una trentina di attentati dinamitardi e impaurito l’Italia. A fare il suo nome un ex collega di lavoro. Ad accusarlo sarebbero delle forbicine che si è poi scoperto, ma solo dopo anni, erano state manomesse dagli inquirenti. Alla gogna e inseguito dalle televisioni, processato dai quotidiani, Zornitta verrà scagionato nel 2009. Ha perduto il lavoro, non ha ottenuto un risarcimento, ma è rimasto ad Azzano Decimo. Panorama - nel quarto articolo dedicato alle storie passate che hanno fatto notizia - è tornato a trovarlo. «Per tutti rimarrò “Unabomber”» dice Zornitta. «È più facile ricordarsi di una menzogna che di una verità».
attentati furono in totale 34 e si conclusero nel 2006. In quegli anni tutti cominciarono a vedere la bomba dove bomba non c’era. Giancarlo Buonocore, che è stato sostituto procuratore di Udine, e tra i primi a occuparsi del caso, ha raccontato a Marco Bariletti e Simone Zucchini Unabomber (Edizioni Nutrimenti) che la nitroglicerina fece le sue vittime, ma che la psicosi ne produsse molte altre. Il procuratore ricorda che in tribunale era «un viavai di gente e ognuno con la sua verità». Ci fu perfino chi si presentò così: «Io so chi è Unabomber. Credetemi è lo sceriffo Wyatt Earp del film Sfida all’O.K. Corrall che si è reincarnato».
Zornitta dice che a deviare la sua vita è stata proprio una di queste malate verità e forse
piccole, ma fatali, antipatie. A segnalare il nome di Zornitta agli investigatori fu un ex collega con cui aveva avuto divergenze. «Ma si trattava di un episodio accaduto quasi vent’anni fa e certo non potevo credere che bastasse a stravolgere una vita». Voleva vendicarsi? «Neppure io immaginavo quanto potesse riuscirci». Il collega era un dipendente della Oto Melara di La Spezia, un’azienda controllata dalla Finmeccanica che si occupa di difesa, dove Zornitta ha lavorato fino al 1986 co- me ingegnere con compiti di ricerca e sviluppo: «Di sicuro non assemblavo esplosivi e meno che mai ne producevo». I sospettati delle procure in quegli anni furono più di duemila. La categoria più analizzata fu quella degli ingegneri, poi quella dei chimici da laboratorio e non mancò naturalmente la pista del terrorismo «ecologista» e «anarchico» che sempre, in Italia, maneggia esplosivi e amministra ossessioni. Il 4 agosto del 1996 uno degli attentati, la deflagrazione di un tubo metallico sulla spiaggia di Lignano Sabbiadoro, fu infatti rivendicato con una telefonata all’Ansa dal gruppo «17 Novembre», una cerchia di sbandati di estrema sinistra. Era una pista falsa. Si provò a setacciare anche l’ambiente militare con la convinzione che si nascondesse nel disagio del reduce dal conflitto nei Balcani il volto dell’autentico bombarolo. «E poi arrivarono a me. Anzi, prima arrivò la televisione e poi la magistratura». Zornitta scoprì di essere ufficialmente pedinato e indagato una domenica mattina, a causa di una troupe televisiva che stazionava ad Azzano Decimo e non si sa se per non perdere l’arresto o se per molestare qualche sventurato.
«Mentre uscivo da messa una giornalista sbucò da un furgone. Ancora la ricordo. Aveva un microfono in mano e, dietro di lei, c’era un operatore con la telecamera». Cosa le chiese? «In realtà non mi fece domande, ma si limitò ad assicurarmi che in procura erano state trovate le prove contro di me. Insomma, mi disse che ero spacciato». L’abitazione di Zornitta venne perquisita quattro volte. «Sempre di mattina e durante la perquisizione bisognava rimanere in pigiama. Non ho mai vista una, di queste perquisizioni, fatta con dovizia. Nelle perquisizioni successive sequestravano gli oggetti che si erano dimenticati in quella precedente». Da allora, Zornitta, fu colpevole di fede («cattolico nel mio caso, divenne un’aggravante») e le metafore furono spericolate come le congetture: «Belva oscena e ripugnante», «personaggio ambiguo e sconcertante». I giornalisti gli alterarono naturalmente gli occhi che sono sempre la spia del criminale e la parte del corpo più facile da storpiare. Quelli di Zornitta divennero «gelidi», «di ghiaccio», e le sue calze erano poi «bianche» mentre le sigarette erano addirittura delle «Multifilter». La moglie Maria Donata crede che queste siano state le frasi più crudeli ma che forse più guasti hanno provocato le induzioni strampalate che meriterebbero, oggi più di ieri, di essere esaminate. «Alcuni, i più audaci, provarono a dimostrare la colpevolezza partendo dalla libreria di mio marito. Scrissero che contenesse dei volumi compromettenti». Quali erano? « Psico
patologia della vita quotidiana di Sigmund Freud. E non era neppure suo, bensì mio».
La colpevolezza di Zornitta venne fatta risalire a delle forbici di colore rosso che oggi può mostrare. Sono strumenti comuni. «E per provarlo chiamai la Valex». Perché? «Volevo chiedere quante