MORTI A VENEZIA
Alla Mostra del cinema (dal 30 agosto) due film promettono brividi estremi. Il documentario su un cannibale e la violentissima storia di un carcerato. Panorama li ha visti in anteprima.
La causa di tutto, parola di Issei il Cannibale, è Disney: «...con tutti quegli animaletti antropomorfi di fumetti e film con cui la mamma mi ossessionava da piccolo». Insomma sarebbe colpa di Pippo, Pluto, Paperino e soprattutto Bambi se Issei Sagawa, l’11 giugno del 1981, data entrata negli annali della cronaca nera, si è mangiato a Parigi la bella collega di studi Renée, cominciando dalle natiche «troppo grasse» e poi lessando, tostando, innaffiando di senape e sale le parti più prelibate.
Lo racconta proprio lui in Caniba, di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor, film-documentario in concorso alla prossima Mostra del cinema di Venezia (30 agosto-9 settembre) nella sezione Orizzonti: un ritratto-intervista con il cannibale in primissimo piano.
Caniba è uno dei due film che lo stesso direttore della Mostra, Alberto Barbera, ha temerariamente definito «inguardabili» per orrore e violenza e che Panorama è in grado di anticipare. Il secondo titolo è Brawl in cell
block 99, brutale prison-movie fuori concorso firmato da quel S. Craig Zahler la cui opera precedente, guarda caso, era Bone Tomahawk, un western versione cannibal, amatissimo dalla critica.
Cominciamo da Caniba. Ripreso nella sua casa di Tokyo, il vero Issei Sagawa, sessantottenne ormai malato, racconta senza espressione la sua filosofia antropofaga, l’ossessione per le donne occidentali che cresce di pari passo con la passione adolescenziale per l’eterea Grace Kelly, e diventa pulsione a divorare l’altro quando la mamma abortisce cadendo dalle
scale: «Mi sono sentito parte del sangue e del feto che perdeva, sono entrato nel suo grembo», ricorda lui con l’ombra di Jun, il fratello-badante alle spalle. Lo scandalo del film non sta nell’incontrare Issei e di scoprire la sua macabra storia. No, lo scandalo sta nello scoprire che questo giapponese colto con il frigorifero pieno dopo aver maldestramente tentato di buttare due valigioni sanguinolenti, è malato («Son stato gracilino e brutto fin da piccolo, da cui il grande senso di inferiorità», si scusa), ma libero.
Giudicato all’epoca incapace di sostenere un processo, fu espatriato in Giappone grazie al padre potente e facoltoso, restò un anno e mezzo in ospedale psichiatrico, per tornare a casa all’inizio sotto falso nome. «Poi però è successo qualcosa, nel mio Paese c’è stato un famoso serial killer, mi hanno chiamato in televisione come esperto opinionista e non ho più smesso». Da allora ha scritto circa 20 libri, pubblicato manga, partecipato ad alcuni film tra cui un porno da lui diretto in cui si intravedono inquietanti sequenze sadomaso. Non rinnega affatto quel che ha compiuto, pubblicamente ammette il rimpianto di dover morire senza poter più assaggiare la carne di una giovane fanciulla, stavolta giapponese, e afferma che l’amore è cannibalismo fin dal bacio e dal desiderio di leccare le labbra dell’altro. L’estremismo del film non sta nell’orrore esplicito, evitato, ma nel rimanere incollati a questa faccia ormai spenta eppure fissa nell’ossessione. In questa vecchiaia che porta verso il nulla, i due registi-etnografi fanno di Issei il mostro inquietante che non vorrebbe essere. Il vecchio cannibale esprime un ultimo desiderio: «Morire mangiato da una bella e giovane ragazza». Hannibal the Cannibal al confronto di Issei era un Lord.
Il secondo film è Brawl in cell block 99. Rispetto a Caniba sembra quasi per famiglie, ma è comunque una pellicola tesissima. Protagonista è un ottimo Vince Vaughn, con croce celtica tatuata sul cranio, specialista in ruoli da duro dopo la cura True detective. Qui è Bradley, ex boxeur senza lavoro e con qualche problema di coppia che per sfangarla decide di diventare corriere della droga. Il tenore di vita cambia, però poi finisce nell’incastro sbagliato e viene arrestato. La detenzione è dura, ma niente a confronto del ricatto recapitato in carcere da chi ha in mano la vita di moglie e figlia ancora in grembo. In un crescendo di atroci violenze, trasformato in macchina per uccidere, Bradley sarà trasferito in un carcere di massima sicurezza, incrocio (si spera di pura fantasia) tra Guantanamo e una camera di tortura del Medioevo. Lì dentro il cannibalismo sarebbe forse la forma più gentile di omicidio. Il regista, geometrico, non sbaglia un colpo, rivestendo anche Don Johnson di nuova, matura crudeltà.
La metafora sull’isolamento, il suprematismo bianco e la violenza diffusa in ogni casetta con bandiera a stelle e strisce è fin troppo leggibile, ma la regia è potente con messaggio chiaro: la strada della violenza non ha altro sbocco che ulteriore violenza, ancora più efferata. Nessuno s’illuda del contrario.