Panorama

Per la nostra intelligen­ce, una fitta rete di contatti e accordi «informali»

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Il 27 giugno un ufficiale della Guardia costiera di Zawya, con elmetto e mimetica protesta via radio, in inglese, per la vicinanza alla Libia, comunque fuori dalle acque territoria­li, di un’unità della nostra Marina integrata nell’operazione europea Sophia, che segnala un barcone di legno a 15 miglia dalla costa. «Guardia costiera italiana, siete molto vicini alla costa libica. A questa distanza minima non aiutate la gente ( i migranti, ndr) a non morire, ma aiutate i trafficant­i a incassare più soldi. Lo sapete bene». Dall’altra parte rispondono così: «No…contattate direttamen­te il comandante sulla nave italiana Foscari. Canale 16».

Mezz’ora dopo si vede una nave delle Ong tedesca Sea Watch a 8 miglia dalle acque territoria­li libiche con potenti luci accese. «È un’esca per i migranti e talvolta usano anche dei bengala per segnalare la loro posizione ai trafficant­i» denuncia il commodoro. La Guardia costiera libica non sta sparando, neppure in aria, ma un’unità della Marina italiana, che deve essere nelle vicinanze, interviene via radio intimando «di lasciarli andare e di abbassare le armi puntate verso di loro».

Uno degli episodi più clamorosi è avvenuto il 10 maggio davanti a Sabrata. Il comandante Abulagila Abd Elberi al timone della motovedett­a libica Kifa riceve un’allerta dal comando di Roma della Guardia costiera italiana, su un barcone in difficoltà. L’unità arriva in zona con i motori al massimo. «Una delle navi dell’Ong tedesca Sea watch era ferma. Appena ci ha visto arrivare ha acceso i motori» spiega il comandante. «Non credevo ai miei occhi, cercava di tagliarci la rotta». A bordo i marinai libici urlano e gesticolan­o inutilment­e. Abulagila tira dritto ed evita per un soffio la collisione. Poco più avanti c’è il barcone con 493 migranti marocchini, sudanesi, pachistani, bengalesi e un solo siriano. Due scafisti in sella a moto d’acqua vedono arrivare la motovedett­a e scappano a tutta velocità verso la costa. «Avevano accompagna­to il barcone fino alla nave della Ong. Era evidente. Sono stati gli stessi migranti a confermarc­i che gli scafisti si erano ripresi il timoniere» spiega l’ufficiale della Marina libica. Sea Watch ha cercato di fare la vittima sostenendo che la motovedett­a voleva speronare la nave umanitaria, ma le telecamere montate a bordo hanno registrato tutta la scena.

Dal 10 agosto la guardia costiera libica ha esteso l’area Sar, di ricerca e soccorso, a 90 miglia della costa. Il codice di condotta imposto dal ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, ha fatto il resto. «È servito a far ritirare alcune Ong

dalle operazioni e farne retroceder­e altre. Il traffico dei migranti è subito diminuito ( meno 72 per cento dall’1 al 24 agosto

rispetto allo stesso mese del 2016, ndr), ma è un successo temporaneo» spiega il commodoro Omr Ghasem. Una fonte italiana a Tripoli aggiunge: «Se dall’altra parte non c’è qualcuno che assicura il passaggio traghettan­doli a casa nostra, i trafficant­i non fanno partire i migranti perché il saldo viene pagato solo quando sono stati recuperati. Non parlatemi di salvataggi­o».

Uno dei motivi dello stop degli sbarchi è legato proprio al sistema degli intermedia­ri, samasira in arabo, che sono dei rappresent­anti delle varie nazionalit­à in fuga verso l’illusorio Eldorado europeo. Piccoli boss etnici nigeriani, sudanesi, etiopi, senegalesi, ma pure bengalesi o pachistani, che raccolgono i soldi dei migranti per l’imbarco. Il trafficant­e riceve il saldo quando il «cliente» viene recuperato da una nave internazio­nale o sbarca in Italia. Una specie di pagamento con garanzia. «Per questo si sono fermate le partenze» spiega una fonte libica di

Panorama. «I trafficant­i non mettono in mare i gommoni con il rischio che non arrivino a destinazio­ne perché le navi delle Ong sono diminuite o più lontane. O peggio, che il carico di esseri umani venga riportato indietro dalla guardia costiera. In ambedue i casi non verrebbero pagati».

Però a terra ci sono ancora fra il mez

zo milione e i 700 mila migranti decisi ad arrivare in Europa. Per questo potrebbero risultare determinan­ti le decisioni e i finanziame­nti annunciati nel vertice europeo di Parigi del 29 agosto scorso. Dalla Tripolitan­ia partono sempre meno barconi, ma il rischio è che si aprano nuovi punti di imbarco, come nell’ex base navale di Sidi Bilal davanti al territorio Warshefana, a ovest di Tripoli, infestato da una milizia criminale. Un altro porto

LE REGOLE ERANO CAMBIATE: I TRAFFICANT­I VENIVANO PAGATI SOLO QUANDO I MIGRANTI ERANO AL SICURO SU UNA NAVE DELLE ONG O ITALIANA. CON I CONTROLLI DI ADESSO, SONO COSTRETTI A FERMARSI PERCHÉ NON VOGIONO RISCHIARE DI PERDERE SIA I GOMMONI CHE I SOLDI.

di partenza per i migranti è Garabulli, 66 chilometri ad est della capitale verso Misurata, dove non arriva il governo di Fayez al Serraj. Non a caso sono state segnalate al largo di Garabulli le navi delle Ong irriducibi­li come la tedesca Sea Watch, che si è rifiutata di firmare il codice di condotta del Viminale. Anche la spagnola Proactive open arms e la maltese Moas continuano le operazioni in mare.

Non solo: I trafficant­i potrebbero riorganizz­arsi con i vecchi barconi in legno più resistenti per farli puntare dritti su Lampedusa, come in passato, al posto dei fragili gommoni che servono per arrivare alle navi delle Ong vicine alla costa. «Un buon motivo per aiutarci di più» spiega il tenente di vascello Al Kamoudy. «I miei uomini hanno una paga di 800 dinari ( 88 euro al cambio in nero, ndr) che possono riscuotere dopo lunghe file davanti alle banche ogni tre mesi, se va bene. Ovvio che mantengono la famiglia con un secondo lavoro. In alcune missioni non avevamo i viveri e siamo stati costretti a fare una colletta per mangiare».

Nonostante gli sforzi dell’Italia, i problemi non mancano. La seconda unità

della Guardia di finanza consegnata a Tripoli è stata cannibaliz­zata per i pezzi di ricambio mentre quella dislocata a Zawya ha rotto l’elica. A bordo della nave officina Tremiti arrivata l’8 agosto i meccanici italiani cercano di fare il possibile, ma non è facile. «Una parte della missione è aiutare tecnicamen­te e con la manutenzio­ne la Guardia costiera e la Marina libica a mettere più unità possibili in mare» spiega il comandante, tenente di vascello Leonardo La Rocca. Un altro compito è impiantare a terra il Centro di coordiname­nto congiunto con i libici, operativo a bordo. L’obiettivo è mettere a disposizio­ne le informazio­ni di tutti i sensori italiani, dai radar ai droni fino ai sistemi di ascolto della flotta nel Mediterran­eo, per individuar­e le partenze dei barconi.

Le Ong accusano la guardia costiera libica di violenze sui migranti e collusioni con i trafficant­i. «Dicono che usiamo le armi, ma se spariamo è solo in aria per evitare che scoppi il caos» giurano gli ufficiali libici. «Al massimo minacciamo di usare un bastone per mantenere la calma. Pensate a 100 persone su un gommone traballant­e, in mezzo al mare, che vogliono a tutti i costi andare in Italia e sanno che li riporterem­o indietro».

Le altre sei motovedett­e classe Vittoria, che il ministero dell’Interno italiano doveva consegnare, sono ancora in cantiere a Biserta, in Tunisia, per rimetterle a posto. Le unità faranno parte della Polizia marittima sotto il comando del generale Tarek Shambor. Per il momento dal porto di Tripoli salpa in missione anti trafficant­i, grazie a soffiate dei pescatori o da terra, l’unità 07 del ministero dell’Interno. Il fatto curioso è che a pilotarla sia un italiano, Giulio Lolli, che i libici chiamano Karim dopo la sua conversion­e all’Islam. Il Corto Maltese di Tripoli è ricercato in Italia per estorsione, ma due corti libiche hanno respinto la richiesta di estradizio­ne.

Lolli, ex venditore di yacht, era finito nei guai per bancarotta. Nel 2011 in Libia sperava di trovare riparo, ma Gheddafi lo chiuse in carcere. I rivoluzion­ari lo liberarono e marciò con loro su Tripoli, dove è rimasto fino a oggi andando a evacuare i civili feriti dall’assedio di Bengasi o partecipan­do dal mare alla battaglia di Sirte contro lo Stato islamico.

«Quando urlo ai migranti “sono italiano” si calmano, ma sono confusi perché vedono la bandiera libica. Altrimenti capita che si buttino in mare per non farsi riportare indietro», spiega Lolli a bordo della motovedett­a con la scritta Police. A bordo gli 11 uomini dell’unità speciale della sicurezza marittima, in gran parte veterani di Sirte, sono armati fino ai denti per affrontare i trafficant­i. In luglio sostengono di avere intercetta­to 500 migranti e hanno l’ordine ci collaborar­e con la guardia costiera. «Ci sono anche le partenze Vip» rivela Lolli durante un pattugliam­ento in mare fino a Garabuli. «Sono libici che si mettono in società e comprano o affittano una barca più sicura arrivando direttamen­te in Italia».

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 ??  ?? Leonardo La Rocca Tenente di vascello, comanda la nave officina italiana Tremit, ora nel porto di Tripoli per riparare le motovedett­e guaste.
Leonardo La Rocca Tenente di vascello, comanda la nave officina italiana Tremit, ora nel porto di Tripoli per riparare le motovedett­e guaste.
 ??  ?? Ayoub Omr Ghasem Commodoro della Guardia costiera libica.
Ayoub Omr Ghasem Commodoro della Guardia costiera libica.
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 ??  ?? Sopra, la Guardia costiera libica ferma un gommone di migranti diretti in Italia. Sotto, due delle quattro motovedett­e che l’Italia ha dato alla Libia, ferme in porto per problemi meccanici. Dietrofron­t sotto scorta
Sopra, la Guardia costiera libica ferma un gommone di migranti diretti in Italia. Sotto, due delle quattro motovedett­e che l’Italia ha dato alla Libia, ferme in porto per problemi meccanici. Dietrofron­t sotto scorta
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 ??  ?? Ritorno alla base In alto, migranti intercetta­ti dalla polizia marittima e riportati in Libia. In basso,i migranti intercetta­ti dalla guardia costiera una volta ritornati in Libia.
Ritorno alla base In alto, migranti intercetta­ti dalla polizia marittima e riportati in Libia. In basso,i migranti intercetta­ti dalla guardia costiera una volta ritornati in Libia.

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