Con i terroristi tornano anche i loro bambini
Oltre agli attentatori di casa nostra e ai reduci di guerra, in Europa c’è anche il problema dei ragazzini portati dai genitori a vivere sotto il Califfato e adesso riportati indietro. Sono disadattati e traumatizzati, hanno dovuto assistere alle esecuzio
Alain è sempre stato un bambino nervoso. Di notte non dormiva mai. Come se avesse terribili scosse che gli correvano lungo il corpo... Non potevo abbandonarlo in Francia. E poi credevo che vedermi finalmente felice, aiutando quei poveri siriani torturati da un dittatore vampiro, gli avrebbe fatto bene. Invece ho trascinato mio figlio in Siria dentro un buco nero. Oggi so che il Califfato era una truffa religiosa, la devozione ad Allah una calamità per violentarci l’anima e mangiarci la vita».
Hélène, ventenne plagiata via Internet dai cacciatori di anime dell’Isis, vissuta quindi a Raqqa per due anni e ora jihadista pentita, piange al telefono e mi sembra che anche lei torni un po’ bambina. «Quando ho deciso di raggiungere il mio imam, ho detto a mio figlio che saremmo andati a occuparci di bambini che soffrivano per fame e violenza. Durante il viaggio, però, ho dovuto indossare quel velo nero che mi copriva completamente e lui ha capito che qualcosa di terribile stava accadendo». Hélène singhiozza: «Mentre passavamo il confine con la Turchia, Alain m’implorava in lacrime di riportarlo dalla nonna. E quando dopo tre giorni, esausti, siamo arrivati a Raqqa, quel pianto terribile aveva trasformato mio figlio in un bambino vecchio. È un’immagine che ogni giorno rappresenta l’incubo che merito». Alain oggi ha quasi cinque anni ed è uno dei 2 mila bambini (ma il numero non è ancora certo) che hanno lasciato l’Europa tra il 2012 e il 2016 per seguire i genitori che volevano vivere l’estasi infernale della jihad combattendo per l’Isis.
Oggi, dopo la riconquista di Mosul e Raqqa, roccaforti del Califfato, molti fra i foreign fighter, scampati alle bombe e al martirio della cintura esplosiva, battono in ritirata con le loro famiglie. Molti sono stati giustiziati dalle forze speciali irachene, altri si nascondono, altri ancora passano le frontiere con l’aiuto di ambasciate e consolati. Coloro che pagheranno di più le loro fantasie necrofile di guerra santa saranno quei figli strappati alla spensieratezza dell’infanzia. Ma a soffrire saranno soprattutto i bambini nati nelle terre del proclamato Stato islamico, stranieri e reietti in ogni dove.
Alain è stato trovato con sua madre Hélène il 22 luglio scorso, in un tunnel scavato dall’Isis alla periferia di Mosul per nascondere tutte le donne con bambini che tentavano di raggiungere i loro Paesi di origine. Insieme a lui Michel di sette anni, figlio di una scheletrica René; Martine di tre, figlia di Annette, ex sarta; Antoine nato cinque mesi fa a Raqqa da Lara, giovanetta di Marsiglia che non ha compiuto ancora 18 anni. «Io, come Lara, siamo riuscite a raggiungere la Francia prima delle altre. Oggi siamo agli arresti domiciliari» mi racconta ancora
Hélène in questa telefonata che rende lei e la sua Odissea un film. La ragazza, giunta ormai da una settimana nei pressi di Tolosa, è una delle poche che, per la sua giovane età, è sfuggita agli iracheni che vorrebbero giudicare nei loro tribunali gli stranieri che hanno combattuto per il Califfo.
«So che tra pochissimo andrò in prigione. Ma che ne sarà di mio figlio Alain? A pagare dovrei essere solo io e, invece, sento che si accaniranno anche contro di lui». Non ha torto, Hélène. Molti europei, davanti a certi «ritorni», vorrebbero vedere in carcere tutti insieme, madri, padri e figli, considerando ormai quest’ultimi dei «demoni-bonsai» pericolosi per la società. Davvero tutti irredimibili? Non lo pensa un esperto di terrorismo come Daniel Koehler, direttore del programma sull’estremismo della George Washington University, che sta a Berlino. «Di questo doloroso e gravissimo fenomeno nessuno comprende ancora i veri contorni. Si tratta di bambini violentati, maltrattati e sofferenti. Minori innocenti che vanno aiutati. Qualunque cosa abbiano fatto e visto». Già, qualunque cosa abbiano visto in un terra di barbari macellai, cultori di morte. Un sedicente Stato dove i libri della prima infanzia di Alain e degli altri non mostravano arance o fiori, ma carri armati e
coltelli; non l’alfabeto per imparare l’arabo, ma armi di tortura e cinture esplosive. Dai quattro anni di età, i bambini che frequentavano la scuola sono stati obbligati a mettere insieme i punti di un macabro curriculum. Hélene continua il suo racconto: «Il mio bambino doveva assistere alla tortura di un traditore: una, due, dieci volte. Se mostrava partecipazione, questo faceva salire clamorosamente il suo punteggio». Parla sussurrando appena, angosciata com’è dai complessi di colpa.
È vero che a certi piccolissimi veniva imposto di presenziare allo sgozzamento di un miscredente? «È vero» ammette Hélène. Ma aggiunge, con un fil di voce, che dopo tanti orrori Alain non era più capace di distinguere la realtà dall’incubo e che nell’ultimo periodo viveva in un penoso stato confusionale. Come tanti altri, del resto: purtroppo troppi ragazzini allattati al terrore che si sono trasformati in virtuosi assassini.
«Già, perché il livello dei successi scolastici dipendeva dall’abilità che dimostra-
vano nella violenza» spiega Nikita Malik, membro della Henry Jackson Society di Londra, un think tank che ha studiato i materiali scolastici dell’Isis. Del resto, il nono numero del giornale sacro del Califfato Rumiyah raccomanda e recita: «I nostri bambini, schiavi di Allah, devono imparare che il loro obiettivo è instillare terrore. Non devono solo uccidere, ma imparare che i crociati vanno macellati. Il cucciolo di leone coltivi l’odio per i nemici come nessuno».
Purtroppo molti fra i bambini tornati alle loro città danno prova di aver imparato la lezione. Emanuel, operatore francese che vuol restare anonimo, racconta che ha preso in carico con amore e professionalità più di un figlio dell’Isis nella casa famiglia dove lavora. «Molti si isolano, restano muti e pieni di nostalgia per la mamma. Troppi di loro non accettano i compagni. Li mordono, li attaccano, gli sputano addosso urlando che sono solo maledetti infedeli e devono morire fra atroci sofferenze». L’operatore giura che si trova davanti all’impegno più duro della propria professione: «Del resto questi bambini arrivano da anni di paure e di stress emotivi. “Se non torturerai l’infedele sarai appeso per le gambe all’inferno” dicevano loro, “e tua madre con te”».
La sorte di questi piccoli uomini e
donne, che come «replicanti» sono condannati alla rabbia, risulta incerta. Oggi i governi europei sono solo occupati a gestire la questione incandescente della sicurezza, più che mai dopo il dramma di Barcellona, a fronte delle migliaia di combattenti stranieri in rientro dai luoghi della guerra mediorientale. «È arduo spiegare alla gente che ora, all’improvviso, dobbiamo aiutare il ritorno di chi ha accettato i massacri e le bombe nelle nostre città» riflette Jessika Soors, capo del team antiestremismo del comune di Vilvoorde, Belgio. «Ma è difficile convincere strutture e scuole ad accogliere minori così traumatizzati».
Dramma nel dramma, anche quello dei piccolissimi di famiglie di foreign fighter europei, ma nati in Siria o in Iraq. Loro vivono in un limbo senza nazionalità, né identità giuridica. L’Isis stampava sì certificati di nascita. Nessun Stato, però, li può ritenere validi. E riconoscere così l’esistenza di queste piccole ombre in fuga dal mondo del male.