Voglio superare papà
Da Gilles a Jacques Villeneuve. Da Keke a Nico Rosberg. Da Michael a Mick Schumacher. Nella Formula 1 la «malattia» si eredita. Allevati a pane e velocità, questi giovani piloti vogliono fare il bis in famiglia. E a volte riescono a superare i loro titola
Il giovane Schumacher, figlio del grande Michael, promette di diventare un campione. Ma è solo l’ultimo di una lunga serie. Prima di lui molti altri figli di importanti piloti di Formula 1 sono scesi in pista e a volte sono riusciti anche a vincere più dei loro padri: dal mito dei due Ascari fino a Gilles e Jacques Villeneuve e Keke e Nico Rosberg. La passione per la velocità, e il talento per le corse, sono fattori ereditari.
II padre era Antonio Ascari, classe 1888, da Bonferraro, campagna piatta tra Mantova e Verona, due passi dalla casa natale di Tazio Nuvolari. Un campione formidabile, compagno di squadra del giovane Enzo Ferrari. Alfa Romeo, anni Venti, ruggenti e tremendi per chi guidava. Morto, infatti a Montlhery, Francia, dentro una curva veloce a sinistra, il 26 luglio 1925 ad anni 37. Il figlio era Alberto Ascari. Fu proprio Ferrari a consegnargli la sua prima vettura per lanciare un binomio leggendario. Due titoli mondiali, 1952 e 1953 per la neonata Formula 1. Alberto: superstizioso, guai a toccare il suo casco azzurro, la maglia celeste. Il 26 maggio 1955, dopo essere passato alla Lancia, chiese all’improvviso di fare qualche giro sulla Ferrari di Eugenio Castellotti, in prova a Monza. Camicia bianca, la cravatta infilata tra i bottoni, il casco del collega al posto del suo. Fu un incidente senza testimoni, Alberto Ascari morto nel punto che ancora oggi porta il suo nome. Aveva 37 anni, la stessa età del padre, era il giorno 26 ed era, pure quella, una curva veloce a sinistra.
Eclatante e inquietante: è questo il
primo capitolo di una storia colma di volti, gesti e dinastie. Padri e figli presi dalla
stessa passione, da una comune propensione al talento e all’azzardo. Un classico, a questo punto dell’automobilismo. È figlio di un babbo pilota Max Verstappen, il fenomeno più precoce della storia motoristica, destinato a firmare un’epoca, la prossima. Olandese, nato il 30 settembre 1997, vincitore del suo primo GP (con una Red Bull) all’età di 18 anni 7 mesi e 15 giorni, ha patito non poco il carattere di papà Jos, severo e violento, portatore di una qualche frustrazione da campione mancato. Max corre da quando si regge in piedi. Un destino obbligato il suo, al pari di quello che ha scandito l’infanzia di Nico Rosberg, figlio di Keke, campione del mondo 1982, vincitore a sua volta del Mondiale 2016, poco prima di annunciare un clamoroso ritiro dalle competizioni. Motivo: troppo stress. Una diserzione simile a una liberazione.
Sono figli d’arte Kevin Magnussem,
pilota del team Haas; Jolyon Palmer, pilota Renault e Carlos Sainz Jr, pilota Toro rosso, tutti protagonisti del campionato in corso. Allevati con il mito del babbo pilota, le corse e basta come baricentro della vita, della famiglia, abituati sin da bambini a sintonizzare riflessi e coraggio sulla velocità e per questo pronti a trattare un mestiere a rischio come un mestiere qualunque.
La dinamica è tipica, sorretta da consigli frutto dell’esperienza paterna, complicata da ambizioni stereofoniche, lanciata da una confidenza con l’adrenalina che, trattandosi di sport estremo, fa la
differenza. Una disciplina molto connessa alla tecnica, allo sfruttamento di una quantità di elementi diversi (gomme ed elettronica, aerodinamica e strategia), per non parlare della gestione dell’emotività. Tutta roba che un padre-campione può trasferire come nessun altro, abbreviando spesso il percorso di apprendimento di un giovanissimo pilota. Il padre consigliere è una figura frequente ma non indispensabile. Damon Hill, campione del mondo 1986, figlio di Graham, vincitore di due Mondiali (1962 e 1968), cercò una sorta d’indipendenza correndo in moto (come aveva fatto anche il giovane Alberto Ascari), prima di infilare la scia luminosissima di papà, interrotta da un incidente aereo nel 1975 quando Damon aveva solo 15 anni. Anche il destino di Jacques Villeneuve è segnato da un babbo morto tragicamente, nello specifico Gilles, un mito assoluto del coraggio, morto a Zolder in Belgio nel 1982 al volante di una Ferrari. Jacques aveva soltanto 11 anni. Ha cominciato a correre poco più tardi, ha lottato ferocemente contro il fantasma di papà sino a quando è riuscito a vincere il titolo mondiale, anno 1997. Il traguardo mancato da Villeneuve senior ha rasserenato Villeneuve junior, lo ha persino distratto come una sorta di appagamento intimo, permettendogli di trattare pubblicamente il tema-Gilles, evitato dichiaratamente sino ad allora. Il tentativo di dare continuità alla propria passione attraverso un figlio pare comunque frequentissimo nel mondo della Formula 1. Un ambito esclusivo e remunerativo, il cui ingresso prevede un lungo e costoso percorso di avvicinamento. Gli accessi restano ridotti, preclusi anche a parecchi rampolli dal cognome noto. Sono sfumati presto i sogni di gloria per i figli di Niki Lauda e Nigel Mansell, timidamente apparsi sulla scena motoristica; non ce l’ha fatta del tutto Nicolas Prost, figlio di Alain (quattro titoli Mondiali), impegnato nel campionato per le monoposto elettriche di Formula E; stessa sorte per Adrien Tambay, figlio di Patrick, che corre nelle gare del campionato DTM tedesco: è morto durante una gara di Formula 2 Henry Surtees, il figlio diciottenne di John, campione del mondo di F.1 nel 1964 e - caso unico - vincitore di ben sette titoli mondiali nel motociclismo.
Per non parlare delle fortune alterne che accompagnano due vere dinastie da corsa, quella degli Andretti, capitanata dal grande Mario (campione del mondo 1978) e quella dei Fittipaldi, avviata dai fratelli Wilson ed Emerson (campione del mondo nel 1972 e 1974), formate da comitive di figli e nipoti.
La schiera di baby dal padre celebre sembra interminabile. Corre e vince nei kart Lorenzo Patrese, figlio undicenne di Riccardo; sta crescendo bene Giuliano Alesi, accudito con una passione travolgente da babbo Jean, protagonista del campionato formativo GP3; sta ottenendo risultati confortanti in Formula 3 Mick Schumacher, secondogenito di Michael. Un superpapà presente sulle piste di kart sino al momento di quel terribile incidente sulla neve a Megève del 29 novembre
2013. Rigoroso, attentissimo, prodigo di consigli, Schumi trattava le gare del figlio alla stessa stregua delle proprie. Mostrando e pretendendo un atteggiamento professionale nonostante Mick - che utilizzava allora il cognome della madre, Betsch - avesse soltanto dodici o tredici anni.
Non solo: crescono anche figli di tecnici da Formula 1: va forte Harrison Newey, per la gioia contenuta di papà Adrian, geniale progettista di vetture vincenti; stesso dicasi per Charlie Kimball, impegnato nelle gare di F.Indy, figlio di Gordon, ingegnere di lungo corso, anche in divisa Ferrari.
Macchine e competizioni in luogo di matematica e grammatica. L’universo del motore come unico mondo possibile. È questo, di norma, il contesto dentro il quale crescono bimbi predestinati all’agonismo da pista. Con il sapore della velocità assaggiato presto e trasformato in un gusto unico, magnifico e quindi consueto.
Accade qualcosa del genere, talvol
ta, anche a figli di persone sprovviste di curriculum agonistico. Era proprietario di una tabaccheria a Cracovia il babbo di Robert Kubica: di fronte alla passione e al talento smisurato di quel ragazzino decise di trasportarlo in Brianza per «consegnarlo» a un costruttore di kart. Robert aveva 14 anni. Per trasformarsi in un campione si servì esclusivamente della propria solitudine e di quel profumo inconfondibile che emana una officina.