Panorama

I lager libici per migranti

Eccoli, i migranti che non partono più per l’Italia: ammassati in centri di detenzione disumani, chiedono di tornare nei Paesi da dove sono fuggiti. E Tripoli dice: «Sono troppi, non riusciamo a gestirli da soli. Va bene bloccare i barconi, ma tutta quest

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Dopo il drastico calo dei flussi verso l’Italia, la Libia si trova ad affrontare una vera e propria emergenza: gestire i centri dove decine di migliaia di africani, ammassati in condizioni disumane, hanno perso la speranza di arrivare in Europa e sono disponibil­i a tornare nei loro Paesi di origine. Ma come?

Leggendo in queste pagine il reportage di Fausto Biloslavo dalla Libia, si rende necessario un appello al governo: ci vuole la fase due, subito. Eccellente il risultato di aver praticamen­te fermato gli sbarchi, ma è evidente che in Libia c’è una bomba umanitaria che se scoppia rischia di travolgerc­i con una nuova e più grande valanga migratoria. Abbiamo ottenuto dai libici (con promesse economiche e logistiche) di fermare gli sbarchi. Bene. Lo abbiamo ottenuto dialogando con il governo, trovando finalmente il coraggio di intervenir­e sulle Ong che facevano da taxi e trattando con i miliziani che organizzav­ano o permetteva­no dietro il pagamento di un pizzo le partenze dei barconi. Se porta a una normalizza­zione vera, non facciamo troppo gli schizzinos­i. Ma adesso ci sono centinaia di migliaia di persone ammassate in luoghi che non ci sentiamo di chiamare centri di accoglienz­a. E non è vero che l’Onu è sul posto a occuparsi di questa nuova emergenza. Noi non abbiamo visto la mobilitazi­one a cui ha accennato il ministro Minniti. L’impegno del governo dei mesi scorsi deve perfino aumentare organizzan­do prima di tutto una cosa: il rimpatrio nei Paesi di origine. I libici non hanno i soldi per farlo, i Paesi di origine neppure (alcuni neanche la volontà). Ma come Biloslavo racconta, molti di questi migranti tenuti come bestie, capito che il corridoio per l’Italia al momento è chiuso, non chiedono altro che di tornare a casa loro. È questo l’impegno prioritari­o adesso, aspettando che diventino realtà gli investimen­ti nei Paesi africani: un ponte aereo straordina­rio pagato dall’Italia e dall’Europa. Non possiamo dire quanto siamo stati bravi e nascondere il migrante sotto il tappeto tripolino. Perché quello è un tappeto che rischia di consumarsi in fretta e male.

Libertà, libertà» gridano in inglese i dannati rinchiusi nel centro di detenzione di Gharyan, 70 chilometri a sud di Tripoli, costruito dagli italiani al tempo del colonnello Gheddafi. Seminudi, in un lezzo di carne umana sotto chiave, i migranti economici provenient­i dall’Africa occidental­e intercetta­ti dai libici infilano le braccia fra le sbarre dell’ingresso dei capannoni-celle gesticolan­do per attrarre l’attenzione. «Vogliamo tornare a casa. Viviamo come bestie con cibo scarso e cattivo, pochi vestiti, dormendo per terra» dicono tutti, dal minorenne della Costa d’Avorio ai cristiani giunti dalla Nigeria, ai musulmani del Sudan.

I capannoni dove sopravvivo­no da mesi sono divisi in cameroni, in un caldo opprimente. Da dietro le sbarre sventolano i fogliettin­i con i numeri di registrazi­one delle ambasciate che li hanno riconosciu­ti come loro cittadini. Poi la pratica passa all’Organizzaz­ione internazio­nale per le migrazioni (Oim) delle Nazioni Unite, che ha il compito di rimpatriar­li. Ma il ritorno a casa è troppo lento e i numeri ancora limitati. Nel 2017 l’Oim conta su un budget per 10 mila rimpatri e ne ha già effettuati più della metà. Nella ventina di centri di detenzione libici, però, si contano ancora 7 mila persone. E pochi chilometri a sud, intorno allo snodo del traffico di esseri umani della cittadina di Al Suerf, sono in attesa 16 mila immigrati illegali tenuti come animali dai trafficant­i, dopo gli accordi con il governo di Tripoli voluti e finanziati dall’Italia.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di «800 mila migranti ancora nel Paese, in gran parte non rifugiati» che rappresent­ano «una minaccia reale». Soprattutt­o se l’imbuto libico non verrà svuotato in fretta con l’aumento veloce dei

rimpatri, e non sarà ripristina­ta la sorveglian­za sulla frontiera meridional­e, porta aperta dei migranti che vogliono arrivare in Italia: la fase 2 prevista dal ministro dell’Interno Marco Minniti e da Bruxelles dopo la riduzione degli arrivi in agosto di oltre l’80 per cento, ma che deve partire in fretta.

«Non so quante richieste di aiuto ab

biamo inviato alla Ue e alle organizzaz­ioni internazio­nali, ma è arrivato poco o nulla. Il budget a disposizio­ne per i pasti è 1 dollaro e un quarto a migrante. Una miseria. E il fornitore non viene pagato da 14 mesi» denuncia il colonnello Bahlul Shanana, che comanda il centro di Gharyan. Dai dossier con le deposizion­i dei migranti si scopre che solo i bengalesi arrivano in aereo da Dacca via Dubai, Turchia o Sudan fino all’aeroporto Mittiga di Tripoli grazie a finti contratti di lavoro in Libia. Il costo del viaggio, compreso il barcone per l’Italia, è di 6 mila euro. Gli altri, tutti via terra.

Nei capannoni-celle di Gharyan i migranti cristiani con l’immagine della Madonna attorno al collo pregano cantando. E ti fanno vedere le bottiglie di plastica tagliate a metà usate come gamelle per immangiabi­li maccheroni. Abdoulie Bosang, 20 anni del Gambia, capelli da rasta, racconta una brutta storia. «Quando ci hanno imbarcato su un gommone a Sabrata, uno scafista ha garantito: “Navigate per 3-4 ore e poi una nave delle Ong o militare vi porterà in Italia». In mare il motore si è fermato e 146 migranti sono finiti alla deriva. Un testimone sudanese sullo stesso gommone aggiunge: «I più deboli, quelli che cominciava­no a crollare, venivano presi dai nigeriani e gettati fuori bordo ancora vivi. Così alleggeriv­ano il peso sul gommone che stava imbarcando acqua. Pensavo di morire». La guardia costiera libica alla fine ha riportato indietro solo 43 migranti.

Sabrata era un hub delle partenze verso l’Italia. Lo scorso settembre hanno segnalato in zona Ermias Ghermay, trafficant­e etiope super ricercato nel nostro paese. Da agosto tutto è cambiato con l’accordo fra il grande protettore degli scafisti Ahmed al Dabbashi, soprannomi­nato Al Ammu, lo «zio», il governo di Tripoli e gli italiani. Le milizie Brigata 48 e Martire Anas Al-Dabbashi (dedicata al cugino morto nella rivolta

contro Gheddafi) hanno ricevuto l’ordine di fermare i barconi. Bashir Lahmoudi, uno dei miliziani in mimetica e kalashniko­v al posto di blocco accanto a Mellita, da dove arriva il gas diretto in Sicilia, parla chiaro: «Difendiamo l’impianto italiano (dell’Eni ndr). Abbiamo combattuto lo Stato islamico a Sabrata e ora fermiamo i migranti». Nelle vicinanze un’ex base della milizia è stata ristruttur­ata con alti reticolati per trasformar­la in centro di detenzione dei migranti fermati a Sabrata. Una fonte che fa parte del potere locale spiega a Panorama l’accordo: «È semplice: se le milizie ordinano agli scafisti di non partire, quelli fermano i gommoni. Se arrivano aiuti e soldi dal governo di Tripoli grazie all’Italia, o direttamen­te dal vostro paese e dall’Europa, per i progetti economici, l’accordo regge. Altrimenti riprendono le partenze».

Il 19 agosto sulla pagina Facebook della milizia Al Dabbashi è apparso l’annuncio del coordiname­nto con l’ambasciata a Tripoli della prima di tre consegne di materiale sanitario all’ospedale di Sabrata da parte del nostro governo. Italia ed Europa investiran­no 200 milioni di euro in 14 municipali­tà della Libia, compresa Sabrata, per progetti

triennali proposti dai sindaci.

La fase di tamponamen­to dei migranti non basterà però se non si interviene nell’entroterra. A Bani Walid, 170 chilometri a sud di Tripoli, sono ammassati in enormi hangar migliaia di persone giunte da Sebha e Kufra, i punti d’ingresso nel deserto meridional­e. «I camion scaricano esseri umani come se fossero merce» racconta una fonte. E i trafficant­i sono sempre più spietati. «Di recente hanno preso nel mucchio due uomini e una donna, che avevano finito i soldi, cospargend­oli di benzina: sono bruciati vivi, come esempio per gli altri».

Uno dei progetti della seconda fase, che dovrebbe essere finanziato dall’Europa, è la sorveglian­za elettronic­a dell’inesistent­e frontiera sud della Libia. Nel 2010 Finmeccani­ca aveva consegnato a Gheddafi un sistema di radar, sensori a infrarossi e telecamere di 300 milioni di euro, in parte già pagati, che avrebbe dovuto intercetta­re il flusso di migranti dal confine meridional­e. Poi tutto è saltato per la rivolta contro il colonnello. Senza il blocco del fronte sud le partenze continuera­nno, come sta già avvenendo, anche se in maniera limitata. Da Tajura, vicino a Tripoli e Garabulli, 66 chilometri a est, continuano a imbarcare migranti sui barconi. I prezzi sempre più scontati della traversata ormai variano da un massimo di 1.700 euro a un minimo di 400.

Nel centro di detenzione di Triq alSiqqa, il più grande della capitale, simile a un girone dantesco, sono rinchiusi un migliaio di migranti. Gli ultimi arrivi, a fine agosto, erano stati intercetta­ti dalla guardia costiera al largo della Libia. Jabel Collins, 28 anni del Ghana, ancora sporco di sabbia e acqua salmastra, è accovaccia­to a terra assieme a un centinaio di migranti appena arrestati. Racconta: «I trafficant­i all’imbarco ci avevano assicurato che le navi italiane sarebbero venute a prenderci». Gwase, una bella ragazza di 25 anni arrivata dal Gambia, spiega con lo sguardo triste: «Mi hanno

NUMEROSI MAROCCHINI COMBATTEVA­NO A SIRTE CON LO STATO ISLAMICO. E ADESSO VOGLIONO INFILTRARS­I IN EUROPA IN MEZZO AI MIGRANTI

detto che in Italia ci sono tanti privilegi per i rifugiati. Ti danno da mangiare, vestiti, protezione. Per questo sono partita».

Il maggiore Abdulnasse­r Hazam, responsabi­le del centro, si scaglia «contro le visite inutili di ministri e diplomatic­i di tutti i Paesi europei, compresa l’Italia. Vengono, vedono e promettono mari e monti. Poi non arriva nulla. La Ue ci aiuta solo per il 10 per cento delle necessità fondamenta­li». Alcuni migranti sono in attesa di rimpatrio da un anno e mezzo, stanno in un gabbione. E c’è anche il problema dei marocchini: «Ufficiali dell’intelligen­ce dell’ambasciata mi hanno detto che devono fare controlli minuziosi» dice l’ufficiale del ministero dell’Interno libico. «Numerosi loro connaziona­li combatteva­no a Sirte con lo Stato islamico e adesso vogliono infiltrars­i in Europa in mezzo ai migranti».

In un solo invivibile stanzone sono ammassate centinaia di persone che dormono per terra in mezzo ai ratti, con un odore soffocante. Mohammed Adam Yakob, 18 anni, sudanese, lancia un messaggio ai giovani come lui: «Voglio tornare a casa. Certo, prima o poi riproverò a partire, ma non dalla Libia. Qui ormai è un inferno».

 ??  ?? Un posto di blocco della brigata 48 di Sabrata, che ora ferma i migranti davanti all’impianto del gas di Mellita dell’Eni.
Un posto di blocco della brigata 48 di Sabrata, che ora ferma i migranti davanti all’impianto del gas di Mellita dell’Eni.
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Anche i bambini Nel centro di detenzione di Tripoli ci sono molte donne e i loro figli.
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Il girone dei dannati Il centro Triq al Siqqa di Tripoli, dove vengono stipati i migranti in attesa di venire reimpatria­ti: dormono per terra, in un caldo soffocante, e il cibo è scarso.
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