Panorama

I VERI VECCHI SONO QUELLI DEL POSTO FISSO

PAROLA DI GIUSEPPE DE RITA, PRESIDENTE DEL CENSIS, 85 ANNI.

- di Stefania Berbenni

Dall’alto dei suoi 85 anni portati con disinvolta sapienza, Giuseppe De Rita, sociologo, fine intellettu­ale, presidente del Censis, parla con cognizione di causa. Fotografa i «nuovi vecchi» consideran­doli «un fenomeno», così come un tempo faceva con il boom economico o l’ industrial­izzazione. Professore, a che vecchiaia siamo di fronte? Mi sta chiedendo della vecchiaia dei vecchi, della società o dei giovani? Veramente pensavo a un fatto anagrafico, ma parliamo pure del resto. Dal punto di vista statistico è indiscutib­ile: siamo un popolo vecchio. Ma se ci guardiamo intorno, la società italiana si sente davvero vecchia? I teatri, i cinema, le mostre, i concerti, i ristoranti sono affollati di persone che hanno superato i 60 anni. Io ne ho 85 e non vivo da vecchio. Sento dire a tanti: «Mi ammazza di più la pensione che il lavoro». Uno statistica­mente è vecchio, ma dentro non lo è. Come lo spiega? Abbiamo fatto una lunga cavalcata di crescita, a cui è seguita una breve cavalcata di resistenza alla crisi. E in questa, abbiamo lasciato vecchi meccanismi di consumi riscoprend­o la sobrietà come valore. La società italiana vive con comportame­nti che non sono da società vecchia. Anche perché pubblicità e personaggi spingono i senior a fare i giovani… Intanto diciamo che la maggior parte delle persone fra i 65 e i 75 anni prolunga l’attività di lavoro: magari cambia ruolo, se prima era al bancone ora è alla cassa, se prima si affaticava fisicament­e ora sceglie qualcosa di meno impegnativ­o. L’italiano medio, pur sapendo che ha meno energia, non lascia il mondo del lavoro. Che cosa significa questo? Che ha fiducia non solo in se stesso, ma in questa società dove c’è ancora posto per qualcuno che vuole fare qualcosa. Invece, dopo i 75 anni, le cose cambiano: malattia, delusioni, hai bisogno del bastone. A proposito, lei lo usa? Rischio la caduta, ma il bastone no. Ritorniamo agli over 75. Devono combattere il declino delle capacità. Per esempio, io da quando ho 12 anni rifaccio il letto, me lo ha insegnato mia madre. E

continuo a farlo anche ora. Certi giorni mi domando: «Perché?». Risposta: c’è uno sforzo mio interno di essere preciso, ordinato e di muovermi. Questo spirito interno non mi abbandona; la maggior parte degli italiani ce l’ha. Alle nove vengo in ufficio, guardo i dati, leggo i giornali, so benissimo che non sono il fresco giovanotto di 40 anni che capiva tutto, ma cerco lo stesso di capire. Il «lavoro» degli over 75 è quello di contrastar­e il naturale declino delle capacità umane. Mio padre faceva le Parole crociate, noi navighiamo in internet. È una longevità attiva. È questo che fa dell’Italia di oggi una cosa seria.

Seria: cosa intende?

Che dimostra di saper invecchiar­e.

In compenso i giovani arrancano.

Sono giovani adulti, forse più vecchi di quanto li facciamo. Sono razionali, cercano soluzioni, capiscono che noi abbiamo avuto una stagione straordina­ria, facile e che loro non l’avranno.

E allora?

Si preparano con un sano egoismo. Noi abbiamo vissuto un processo storico particolar­e, con l’industrial­izzazione di massa e il made in Italy. Loro devono farsi un processo tutto loro. La verità?

Siamo pronti a sentirla.

La fascia più vecchia è quella che oggi ha l’impiego fisso, magari statale, e che in nome della sicurezza del futuro ha rinunciato a cambiare: persone spesso frustrate, castrate, con rancore. Una fascia di popolazion­e che non si mette in gioco, che non ha sostituito il proprio processo di sviluppo. Posso aggiungere una cosa?

Prego.

Mi capita di andare al funerale di amici, gente che ha vissuto l’Italia dello sviluppo. E sempre mi vengono in mente i versi del Salmo 83: «E vanno con vigore sempre crescente fino a comparire innanzi a Dio in Sion».

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Giuseppe De Rita, 85 anni, presidente del Censis.

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