La strana coppia e le loro insolite affinità elettive tra Sicilia e Stati Uniti
David Leavitt e Ottavio Cappellani sono romanzieri diversi ma di uguale, straordinaria originalità. E sono anche diventati amici. Qui ci raccontano perché. E si raccontano.
È un legame con una lunga storia quello tra uno dei più apprezzati narratori americani - sul quale è stato costruita l’etichetta letteraria di Minimalismo - e uno dei nostri autori più originali e - si può dire, finalmente? - divertenti. David Leavitt aveva apprezzato oltre dieci anni fa il libro di Ottavio Cappellani, Sicilian Tragedi, con la sua parodia shakespeariana di Romeo e Giulietta. E oggi, in occasione dell’uscita di libro Sicilian Comedi, che aggiunge un nuovo capitolo alla saga mafiosa in salsa barocca di Cappellani, Leavitt è tornato «sul luogo del delitto». Ha presentato infatti il romanzo, insieme con il suo autore, al recentissimo festival Pordenonelegge e poi a Roma e Milano. In quest’occasione, in esclusiva per Panorama, Ottavio Cappellani e David Leavitt hanno dialogato su sarcasmo e ironia in letteratura, sui rispettivi obiettivi in un libro, sulla lezione di Shakespeare, sull’idiosincrasia per New York e sull’inimitabile carattere «italobollywoodiano» della Sicilia.
OTTAVIO CAPPELLANI In molti mi chiedono, e a dire la verità me lo sono chiesto anche io, come mai uno scrittore così rappresentativo della letteratura americana si sia occupato di uno scrittore siciliano.
DAVID LEAVITT Il New York Times mi ha telefonato e mi hanno chiesto se mi andava di recensirti. Ho detto subito sì. Dopo avere vissuto a New York e in Italia per qualche anno, sono approdato prima a Bombay e quindi in Florida, dove insegno scrittura creativa all’università. Amo la cultura italiana e i tuoi romanzi mi ricordano il Pietro Germi di Divorzio all’italiana. Ho amato Bombay e la tua Sicilia mi sembra molto italobollywoodiana. Credo di avere un interesse particolare per il sud del mondo, e considero la Florida come la Sicilia d’America. Anche per le note vicende storiche di Miami. Mi ha anche colpito molto il tuo uso di più strumenti narrativi, l’opera, il teatro, il cinema, oltre alla letteratura.
O.C. La tua generazione, come ben sai, è stata per la mia estremamente importante. Si pensava quasi che la letteratura fosse morta. Poi abbiamo letto il tuo Ballo di famiglia, che ha aperto la strada a tutta una generazione di scrittori newyorkesi, e in tanti abbiamo pensato quasi a un vero rinascimento.
D. L. Devo dire che la strada era stata aperta da alcuni scrittori prima di noi, soprattutto attraverso l’uso del racconti breve. Penso ovviamente a Raymond Carver. Molto spesso si è parlato della morte della letteratura, ma secondo me ha più vite di un gatto.
O.C. è più o meno quello che penso della commedia. La narrazione è nata col teatro greco, praticamente dalle nostre parti: le forme della narrazione erano tre, la tragedia, la commedia e una terza, oggi quasi dimenticata, l’ilarotragedia. Oggi, soprattutto in Italia, è come se avesse vinto il pensiero «tragico». E la narrazione ne segue le sorti, cupe, seriose. Voi anglosassoni avete invece sempre conservato uno stretto legame con l’ironia, forse perché Shakespeare per primo riprese la commedia classica inserendola nella tragedia. D’altronde anche da noi Dante scrisse una Commedia e non una Tragedia, come spesso si tende a dimenticare.
D.L. Per noi l’ironia, la commedia, il sarcasmo, sono sempre state armi della letteratura per resistere alle ingiustizie. Oggi con internet è più facile che questa forma di narrazione torni a rivestire la sua importanza. Penso agli anni della seconda guerra mondiale, da noi esisteva la commedia, l’ironia feroce contro Hitler, in Germania ovviamente no. Adesso invece vedo come in tanti paesi iniziano a conoscere, ad esempio, i nostri stand up comedian, Louis C.K., Eddie Izzard per citarne due. Donald Barthelme, uno scrittore che sicuramente ci ha influenzati, usava il termine «wacky» per descrive una forma di commedia che però ha il potere di spezzarti il cuore. Tu sei «wacky».
O.C. «Wacky» mi piace infinitamente. So che sei al lavoro su un nuovo romanzo, Il decoratore. Il titolo è parecchio interessante per un siciliano: la decorazione è un’arte equilibristica, può raggiungere vette altissime con il barocco o lambire il kitsch con il rococò.
D.L. Ho sempre avuto una grande passione per l’architettura d’interni. Credo che la decorazione, in senso lato, tracci un confine tra l’interno e l’esterno, tra l’intimo e il pubblico. In quale mondo vive il decoratore? Quale è la voce narrante del decoratore? Il mio libro è ambientato tra New York e Parigi, con un paio di capitoli in Italia, all’indomani dell’elezione di Donald Trump, quando in Francia si ventilava la possibilità di una vittoria di Marine LePen. Forse è il mio romanzo più politico, narrato attraverso questo confine tra interno ed esterno, la decorazione, il decoratore.
O.C. Credo che con queste parole tu abbia dato una delle migliori definizioni del barocco. Ma forse si può applicare a molti altri stili che conosco di meno. A proposito del privato, ho molto ammirato la tua decisione di lasciare New York proprio quando forse era il luogo dove «dover» stare, il tuo tirarti fuori da un gruppo - penso a Bret Easton Ellis, Jay McInerney, Donna Tartt - nel periodo di maggiore successo.
D.L. Ti spiego perché con un esempio. Siamo stati a Pordenone, una cittadina splendida, un festival di letteratura con una organizzazione perfetta, sono stato davvero bene, ma non sono riuscito a dormire la notte. Troppi input. Ho bisogno di far decantare le cose. Con l’esperienza ho scoperto l’importanza della lentezza, della routine, nella scrittura. Ho avuto e ho un rapporto molto conflittuale con New York. Per me è una benzina con troppi ottani.