I due vicoli ciechi. Le macerie post referendum di Barcellona e Londra
Catalani e britannici hanno distrutto un sistema. Ora però sono nei guai. Perché non sanno come costruirne un altro.
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Èpiù facile distruggere che costruire»: è un antico ammonimento della saggezza popolare. Ma neppure ricostruire quel tanto o quel poco che resta dopo è impresa da niente. Tra la rivendicazione di un’antica e totale sovranità come quella inglese dopo la Brexit, e la pretesa della Catalogna di diventare per la prima volta sovrani, ci sono differenze enormi. A ben guardare, il solo tratto comune è che tanto Londra quanto Barcellona, così come Madrid e Bruxelles, sono state inguaiate da un referendum. E che tanto i protagonisti della vittoria quanto quelli della sconfitta non sanno che pesci pigliare. Carles Puigdemont è un imputato a piede libero che per il momento gode della protezione belga, inchiodato, da un referendum vinto e da lui stesso convocato, alla difficile alternativa tra quella di martire di una causa persa e antistorica ed esule in qualche paese dell’America Latina. Theresa May ha ereditato la vittoria in un referendum su una causa che forse non sentiva più di tanto sua. Ora però deve gestire la trattativa di quello che, piuttosto che una separazione consensuale, si preannuncia come un brutto divorzio. Per ora ha semplicemente saputo fissare la data in cui Londra e Bruxelles dovranno dirsi addio per sempre: il 29 marzo 2019, alle 23.00 ora di Greenwich, ovvero le 24 di Bruxelles. Forse Theresa May: all’inizio la premier britannica era tiepida verso la Brexit. Ora ne ha fissato la data: 29 marzo 2019. di Vittorio Emanuele Parsi *
c’è del gotico humor britannico nell’associare alla mezzanotte dell’Unione la fine del matrimonio di interesse tra il Regno Unito e l’Ue. Forse persino la scelta del fuso orario di riferimento rivela, più che una cortesia nei modi, una sudditanza psicologica. Staremo a vedere. Ma di sicuro nessuno vorrebbe essere nei panni dei negoziatori che da qui a circa 18 mesi dovranno tentare di trovare un accordo.
Nella penisola iberica, intanto, si aspetta ancora di capire chi potrà evitare che il prodotto di due personaggi mediocri come Puigdemont e Mariano Rajoy non debba essere il risorgere della violenza politica in Spagna, in una terra segnata da decenni di terrorismo e di «guerra sucia» nei confronti delle organizzazioni clandestine (allora basche) da parte di tronconi delle forze di sicurezza avallate e protette dai vertici politici madrileni. Qualcosa che gli spagnoli speravano di essersi messi definitivamente alle spalle con la resa dell’Eta. A ben pensarci, l’istituto monarchico è l’altra cosa che accomuna Spagna e Gran Bretagna, e in questo momento non si può dire che goda di gran popolarità. Per l’inconsistenza di re Felipe VI di fronte a una crisi che scuote il regno alle fondamenta e per l’avidità fiscale di Elisabetta II (o per lo meno del suo commercialista), che potrebbe spazzare via l’immagine di una sovrana dedita al suo popolo, proprio e per questo tanto amata. * ordinario di Relazioni internazionali
alla Cattolica di Milano