Wilbur Smith: io e i leoni
Un faccia a faccia drammatico, nel racconto autobiografico del più famoso autore al mondo di romanzi d’avventura. Una quarantina di volumi tradotti in 26 lingue, con oltre 130 milioni di copie vendute: a 85 anni lo scrittore zambiano Wilbur Smith pubblica ora in italia la storia della sua vita, ricca di colpi di scena e avvincente come uno dei libri dei suoi moltissimi cicli narrativi, dall’Africa all’Antico Egitto. Panorama pubblica in esclusiva un estratto dal suo nuovo libro Leopard Rock, dove narra il suo «rito di passaggio» dall’infanzia all’età adulta, che ha segnato il destino di un’esistenza e di una vocazione creativa.
Ho ucciso i miei primi leoni a tredici anni. L’ho fatto per difendere la fattoria di famiglia che ero incaricato di proteggere, ed ero solo.
Ogni anno i miei genitori si concedevano una vacanza in Sudafrica o ancora più lontano. Di solito mio padre lasciava le redini del ranch al suo caposquadra, Peter, ma in quel caso la responsabilità venne affidata per la prima volta a me. Ogni giorno, in sella alla mia femmina di pony, giravo intorno ai campi di papà, costeggiavo le rive del Kafue e salivo sulle colline boschive della tenuta. (…) Talvolta dei leoni attraversavano la tenuta in cerca di selvaggina e i miei attenti giri di ronda miravano proprio a individuare eventuali tracce di quei predatori. Li scorgevo solo di rado, ma più spesso mi imbattevo nello loro orme o nei resti di un animale che avevano ucciso.
Entrai nei campi in cui pascolavano le pregiate mucche Brown Swiss di mio padre, gli animali da cui dipendeva la sopravvivenza finanziaria del ranch; (...). Quando mi infilai fra di esse sapevo già che qualcosa non andava: si erano sparpagliate quasi tutte, scomparendo in altri pascoli.
Di fronte a me c’era una mucca con la cavità toracica in bella vista e lucida di sangue, il collo dilaniato dai denti di un mostro. Mi guardai intorno e sull’erba vidi altre due o tre carcasse, tutte mutilate allo stesso modo.
Sussurrando qualcosa alla pony per tranquillizzarla, visto che l’odore del sangue la stava innervosendo, smontai e mi avvicinai alla prima mucca morta. La toccai con lo stivale.
Era appena stata uccisa, il sangue non si era ancora coagulato. Sentii un basso ringhio. Girai lentamente la testa. Nell’erba alta alla mia destra due grandi occhi dorati mi fissavano al di sopra di un bovino sbranato.
Mi ero già trovato vicino a dei leoni e fui assalito da fugaci visioni di quella notte di cinque anni prima. Quella volta, tuttavia, non c’erano lembi di tenda dietro cui nascondersi e mio padre non sarebbe sbucato baldanzoso dal buio per sconfiggerli. Allungai d’istinto una mano verso il fucile appeso alla spalla. Era quello di papà, lo stesso che quella notte aveva abbattuto i felini mangiauomini. Lo stavo sollevando con cautela, accingendomi a prendere la mira, quando il leone caricò. Era un autentico demonio, la criniera incrostata del sangue delle prede appena uccise. Con la coda dell’occhio ne vidi altri due nel campo, due leonesse, la loro attenzione attirata dal ringhiare del maschio alfa. Non provai alcuna paura. In fondo era stato papà a insegnarmi a sparare. Feci fuoco. Non appena il leone morì, una delle leonesse spiccò un balzo verso di me. Ruotai su me stesso, sparai di nuovo e lei cadde ai miei piedi. Non aspettai che l’altra caricasse. Mi stava osservando mentre pestava una zampa a terra e strisciava in avanti, pronta a colpire, così sparai anche a lei. Soltanto in seguito, mentre osservavo i loro corpi, buttai fuori il fiato e la scarica di adrenalina cominciò a farmi tremare, ma non avevo rimpianti: o me o loro...