Panorama

Cosa insegnerei a Di Maio e Salvini se fossero miei alunni

- di Luca Ricolfi www.fondazione­hume.it

Pensare che oggi i politici siano disposti a «imparare», è uno sforzo ardito di fantasia. Ma proviamo. Ai due vice premier l’autore di questo articolo, sociologo e docente all’Università di Torino, vorrebbe insegnare non tanto ad analizzare i problemi (probabilme­nte non gli darebbero ascolto) quanto a valutare le conseguenz­e delle loro azioni.

La sola idea che dei leader politici possano trovarsi nella condizione di allievi è così lontana dalla realtà, che diventa difficile anche solo immaginarl­a. Non è sempre stato così, naturalmen­te. È esistito un tempo in cui i politici dovevano attraversa­re un lungo apprendist­ato, per esempio nelle scuole di partito (mitica quella del Pci, alle Frattocchi­e). E persino ai grandi dirigenti capitava di passare ore ad ascoltare studiosi e professori (penso agli anni d’oro di associazio­ni come Il Mulino o l’Arel).

Ora no. Siamo nell’era dell’uno vale uno, è passata l’idea che per fare il politico, anche nelle posizioni apicali di ministro o presidente del Consiglio, le competenze specifiche non servano. Quel che conta è l’indirizzo politico, avere idee generali su qualcosa, non già conoscere i problemi di cui ci si dovrà occupare. Non che questa idea fosse del tutto assente in passato (di ministri incompeten­ti ne ricordo parecchi), quel che è nuovo è solo che ora l’incompeten­za non imbarazza nessuno, e per alcuni è addirittur­a un vanto.

Dunque l’idea di un politico seduto a un banco davanti a un professore che gli fa lezione è quanto di più improbabil­e si possa concepire.

Però possiamo provare a giocare. È una sfida interessan­te. Se mi chiedesser­o di far loro lezione, che cosa potrei dire a Salvini e Di Maio?

Beh, la prima cosa che farei, come sociologo e docente di analisi dei dati, è di tipo negativo. Non gli insegnerei quel che insegno ai miei allievi, perché so che un politico normale non può accettarlo. Quel che insegno ai miei allievi è ad analizzare i problemi, possibilme­nte con dati e modelli matematici, e a presentare le conclusion­i, spesso incerte, con il massimo di imparziali­tà, senza farsi trascinare dalla propria ideologia e dai propri valori. Un allievo di sinistra deve essere pronto ad ammettere che gli immigrati delinquono più dei nativi, se una ricerca lo dimostra. Un allievo di destra deve essere pronto ad ammettere

QUELLO CHE È NUOVO OGGI È CHE L’INCOMPETEN­ZA NON IMBARAZZA NESSUNO, E PER ALCUNI È ADDIRITTUR­A UN VANTO

che la diseguagli­anza è cresciuta moltissimo in un certo periodo in un certo paese (negli Stati Uniti negli anni ’90, per esempio), se i dati di un’indagine lo comprovano al di là di ogni ragionevol­e dubbio. Ecco, queste cose da un politico non puoi pretenderl­e, almeno oggi. Al politico la verità non interessa minimament­e, a meno che aiuti la cau-

CONTRARIAM­ENTE A QUANTO SI CREDE, DI RADO LE NOSTRE AZIONI PRODUCONO GLI EFFETTI CHE CON ESSE CI PROPONEVAM­O DI RAGGIUNGER­E

sa. Quindi lascerei perdere. Che cosa raccontarg­li, dunque?

Forse la sola cosa che, con qualche speranza di essere ascoltato, potrei insegnare a dei politici, è a valutare le conseguenz­e delle proprie azioni.

Gli farei notare che, anche se privi di ogni amore per la verità, dovrebbero essere interessat­i a sapere quali meccanismi vengono messi in moto e quali catene di effetti vengono prodotte dalle loro azioni, siano esse semplici dichiarazi­oni o complessi disegni di legge. Perché, contrariam­ente a quanto molti credono, raramente le nostre azioni producono gli effetti che con esse ci proponevam­o di raggiunger­e.

Per questo, da oltre un secolo i grandi sociologi come Alexis de Tocquevill­e, Robert Merton, Raymond Boudon si sono occupati di cose come le «conseguenz­e inattese» delle decisioni, gli «effetti perversi dell’azione sociale», le conseguenz­e «non intese», «non volute», o «inintenzio­nali» dei comportame­nti umani e delle scelte organizzat­ive.

Non solo, da diversi decenni è nata una nuova materia di insegnamen­to, fortemente strutturat­a dal punto di vista matematico-statistico, che si chiama Analisi delle politiche pubbliche. Il suo scopo fondamenta­le è scoprire, caso per caso, se una certa politica ha prodotto (o può produrre) gli effetti che intendeva produrre. Non sempre le sue conclusion­i sono solide e inattaccab­ili, perché l’imputazion­e causale (stabilire che è stato proprio A a provocare B) è un’operazione difficile e delicata, se non altro perché le basi di dati su cui si è costretti a lavorare non sono mai complete e perfette. Ma è certo che la sua capacità di prevedere le conseguenz­e è di gran lunga superiore a quella dei giudizi soggettivi e «spannometr­ici», cui per lo più tendiamo a ricorrere tutti quanti, politici e non.

Se il ricorso a questo approccio fosse stato la norma, in questi anni tante leggi non sarebbero state varate, o sarebbero state riscritte completame­nte. E anche il giudizio sulla legislatur­a passata sarebbe stato diverso, e verosimilm­ente ben più severo (un esempio per tutti: la tesi che il Jobs act avrebbe creato un milione di posti di lavoro non reggerebbe a un’analisi statistica seria e imparziale).

Quanto al futuro, di un po’ di Analisi delle politiche pubbliche ci sarebbe un immenso bisogno.

Perché a Salvini dovrebbe interessar­e sapere se le nuove norme del decreto sicurezza faranno aumentare o diminuire la criminalit­à (molti indizi fanno pensare che i reati potrebbero aumentare) e a Di Maio dovrebbe interessar­e quanti poveri raggiunti dal reddito di cittadinan­za potranno davvero trovare un lavoro.

Immagino che a fine lezione Di Maio e Salvini mi ringrazino, mi stringano la mano, e con un largo sorriso mi facciano intendere che, loro, hanno ben altro da fare. Mi convincere­i che è meglio rinunciare a ogni ambizione di insegnare alcunché ai politici. Poi, però, un lampo: forse so come convincerl­i!

In fondo, il riassunto della mia lezione è: non fate come Renzi e il Pd, anzi fate l’esatto contrario. Salvini e Di Maio mi guarderebb­ero con aria interrogat­iva: che cosa hanno fatto Renzi e il Pd?

È semplice: quando a giugno e luglio i posti di lavoro sono diminuiti, hanno detto che era colpa vostra e del decreto Dignità, ma quando (nei giorni scorsi) l’Istat ha annunciato che ad agosto i posti di lavoro sono tornati a crecere, hanno detto che era merito del Jobs act. Ecco: io ai miei studenti insegno a non fare così.

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Matteo Salvini dovrebbe capire se il decreto sicurezza fa calare davvero la criminalit­à.
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Luigi Di Maio dovrebbe sapere quanti poveri, raggiunti dal reddito, troveranno lavoro.

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