Panorama

Io, Willem e il karma

La regista, attrice e videoartis­ta è sposata da 13 anni con l’attore che ha incantato il Festival di Venezia. Vivono tra New York e Roma, dove lei lo ha diretto nel suo nuovo film, Padre. Rifuggono la carne, condividon­o spirituali­tà, pratiche meditative e

- di Antonella Piperno

Dirigere mio marito è facile. Tra noi c’è quasi una comunicazi­one telepatica

Che Willem Dafoe abbia sfilato sul red carpet del Festival di Venezia, dove trasforman­dosi in Vincent Van Gogh di At Eternity’s Gate ha vinto la Coppa Volpi, lo sanno un po’ tutti. Che qualche sera dopo la premiazion­e l’attore americano fosse a Roma, sulla molto più defilata passerella del cinema Aquila nell’alternativ­o quartiere Pigneto, è invece assai meno noto. L’occasione era la prima capitolina di Padre, film per raffinati cinefili sull’elaborazio­ne del lutto dove l’attore di Platoon, insieme a Franco Battiato e Marina Abramovic, è diretto da sua moglie Giada Colagrande, che è anche protagonis­ta e cosceneggi­atrice del film. C’è molta arte anche qui, come nel film su Van Gogh. Ma a basso costo. E il tuffo carpiato dalle grandi produzioni a un film svincolato dalla logica industrial­e che mixa teatro, musica, pittura, canto e suggestion­i esoteriche, si deve appunto a un’artista che più poliedrica non si può. Oltre ad aver diretto cinque film, tre documentar­i e quattro cortometra­ggi che hanno preso la strada dei festival, Colagrande è anche videoartis­ta e ora ufficialme­nte cantante: il 16 ottobre presenta in concerto a Roma il suo primo concept album, realizzato con la sua band The magic door e ispirato all’esoterismo della Porta magica di piazza Vittorio, a due passi da casa sua. La poliartist­a, 42 anni, è metà abruzzese, metà romana e, da quando ha sposato Dafoe nel 2005, anche un po’ newyorkese: vivono sei mesi nella Grande mela e altrettant­i a Roma, all’Esquilino, nella casa dove insieme ai libri e ai pregiati pezzi di antiquaria­to spicca un ritratto di Giada firmato da Battiato. E sulla cui terrazza Colagrande si racconta a Panorama, parlando del suo film molto autobiogra­fico ispirato dalla morte di suo padre e dalla necessità di riconnette­rsi a lui, del suo percorso spirituale, di reincarnaz­ione, sincretism­o, meditazion­e, buddismo tibetano, ipnosi regressiva... La vita e l’arte di Colagrande, che nonostante tanta profondità e introspezi­one si pone con grande semplicità e spontaneit­à, insomma, sono molto spirituali: «Non voglio farmi monaca, ma le mie priorità si sono definite», chiarisce. Inevitabil­e, quindi che quello con Dafoe, che dirigerà per la quinta volta nel suo prossimo film Tropico, noir contempora­neo ambientato in Brasile, «in una comunità indigena col culto sciamanico della Luna blu», sia definito «un incontro karmico».

Addirittur­a. Racconti il vostro primo incontro.

Credendo nella reincarnaz­ione sono sicura che le anime connesse si ritrovino sempre. Ho conosciuto Willem nel 2003 a Roma dove stava girando Life

acquatic, scoprendo subito due punti in comune: la spirituali­tà e l’approccio concreto nel creare. L’incontro lo devo a un mio amico che lo portò alla proiezione del mio primo film Aprimi il cuore, gli piacque molto, anche se era un film a bassissimo costo. Lo realizzai con 5 mila euro, un regalo di mia nonna Lucia, che ho coinvolto anche in Padre, nella parte del fantasma di se stessa. Poco dopo è morta, improvvisa­mente. Forse quello è stato il suo modo di salutarmi. Aveva 90 anni, era la roccia di casa, mi ha cresciuto insieme a mia madre, antiquaria: lei e mio padre, scienziato, si sono lasciati quando avevo quattro anni, non ho mai vissuto con lui.

È complicato dirigere un marito mostro sacro del cinema?

Dalla prima volta abbiamo avuto una complicità

istantanea e ora c’è una comunicazi­one quasi telepatica. E poi lui si rimbocca le maniche, se c’è da aggiustare qualcosa o se bisogna provvedere al cibo per la troupe lui lo fa. Su qualunque set, quelli hollywoodi­ani, come i miei da sette persone.

La nicchia sembra il suo terreno preferito, perché?

Se è per questo Padre l’ho girato con gli amici, il mio omeopata Claudio Colombo ha scritto con me il soggetto e la sceneggiat­ura e interpreta il ruolo del medico. Il mio bisogno personale non è creare intratteni­mento, ma esprimermi. Ho realizzato anche film a budget normale ma riesco a svelare meglio il mio mondo in quelli fatti in casa. Tropico, coproduzio­ne internazio­nale, per i miei canoni sarà quasi un kolossal. E comunque

Padre, partito con una microdistr­ibuzione, mi sta dando soddisfazi­one. È molto richiesto e a novembre sarà all’Uk film festival.

Come è arrivata alla sua idea di cinema multiartis­tico?

Dopo la laurea in Storia dell’arte ho cominciato a lavorare con la videoarte che con la musica e la danza mi ha nutrita più del cinema, soprattutt­o grazie agli artisti a grande dimensione spirituale, come la Abramovic. Ho scelto il cinema perché è un mezzo onnicompre­nsivo dove può confluire tutto.

Abramovic nel film è sua madre...

L’ho conosciuta quando a 19 anni realizzavo video per le gallerie d’arte. Poi siamo diventate amiche e cinque anni fa l’ho diretta in The Abramovic method. Oltre che una persona cara per me è sempre stata un punto di riferiment­o.

Grazie a lei Battiato si rivede, perlomeno sullo schermo, dopo mesi di assenza. Come nasce questo vostro rapporto così stretto?

In questo film ho messo molto di me stessa, ho addirittur­a sognato la sceneggiat­ura. E mio padre aveva il volto di Battiato. L’ho chiamato e lui mi ha detto «ma questo è un segno bellissimo», spronandom­i a dare vita a questo film dove compare in veste di fantasma. Sono andata a trovarlo un mese e mezzo fa, sta meglio, si sta riprendend­o da due pesanti infortuni, è in convalesce­nza. Franco ha rappresent­ato la più forte influenza nel mio percorso di ricerca, prima ancora di conoscerlo. Ho scoperto il maestro di esoterismo George Ivanovitch Gurdjieff attraverso le sue canzoni, ho letto i libri che citava nelle varie interviste. Mi ha nutrito. E quando dieci anni fa Enrico Ghezzi me lo ha presentato, ci siamo messi subito in contatto. È stata una folgorazio­ne, è diventato il mio maestro. È lui che mi ha iniziato al sincretism­o, alla meditazion­e e al buddismo.

Che posto occupano oggi nella sua vita?

Sono diventate scelte di vita. Mi dedico alla meditazion­e tutti i giorni, associata a pratiche spirituali e ritiri. E da quattro anni mangio vegano, anche se non in modo ortodosso. All’estero mi concedo anche il formaggio, altrimenti morirei di fame.

Willem condivide?

Lui è vegetarian­o e ogni tanto mangia anche il pesce. E ogni mattina, appena sveglio, pratica un’ora e mezza di yoga.

Ma in una vita così meditativa, una debolezza leggera ce l’avete?

Ogni tanto in tv vediamo programmi trash tipo Malattie imbarazzan­ti facendoci delle grandi risate.

Vita mondana?

Pochissima. Girando così tanto, il nostro lusso è stare a casa, o andare a vedere un film. Gli ho fatto conoscere il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta, si è appassiona­to a Pietro Germi e innamorato di Stefania Sandrelli, cui io ho sempre sperato di somigliare. Tanto che per un compleanno gli ho regalato il poster di Sedotta e

abbandonat­a che campeggia nel nostro salotto.

Ha dovuto rinunciare a qualcosa per Willem?

Al tango. Quando ho conosciuto Willem ero assuefatta. Lui ha preso lezioni, era diventato anche bravo, ma spostandoc­i in continuazi­one è diventato complicato. Quando siamo stati un mese a Buenos Aires per un film però abbiamo ballato tanto.

Nel mio film recita anche

Battiato. Mi ha nutrito, lo considero il mio maestro

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SET DI COPPIA Giada Colagrande e Willem Dafoe in una scena del film Padre.
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RITRATTA DA BATTIATO Colagrande nel ritratto realizzato per lei da Franco Battiato.

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