Richard Rogers: ecco il mio mondo a misura d’uomo
Richard Rogers, l'architetto di edifici-simbolo come il Centre Pompidou, fa convivere un cuore italiano con passioni globali. E di alcuni illustri colleghi dà questo giudizio...
Nel mondo il 40 per cento della persone non ha un tetto sulla testa. L’architettura dev’essere soprattutto intervento sociale. Senza questa funzione, la sua ricerca della bellezza non significa nulla». A 85 anni Richard Rogers ha idee chiare come non mai. Lui, uno dei progettisti più famosi e innovativi (suoi, tra gli altri, il Centre Pompidou a Parigi, il Millennium Dome e il Lloyd’s Building a Londra, il palazzo di Giustizia di Bordeaux), è allergico alla definizione «archistar» e continua a lavorare instancabilmente col suo studio londinese di 200 persone. Uno sguardo lungo sul futuro globale, ma con radici familiari a Firenze, dov’è nato («Amo il primo Rinascimento, quando è precoce, non è maniera», dice). E dopo la Toscana si è formato e ha vissuto a Yale, New York, Parigi e finalmente Londra. Un viaggio esistenziale cosmopolita, appassionante da poco diventato anche un’autobiografia. Qual è la città da vedere perché parla del futuro? Amburgo per la sua capacità di evoluzione. Scelgo però Barcellona, come esempio di equilibrio. Ha la più alta densità abitativa tra le città europee, paragonabile a Manhattan, ma quasi tutti gli edifici non superano gli otto piani. Il piano urbanistico progettato da Ildefons Cerdà i Sunyer alla fine dell’Ottocento funziona ancora. Invece, una città brutta è... Per paradosso dico Firenze, che ovviamente è una delle più straordinarie città al mondo. Ma quando deve crescere lo fa senza piani, né controllo. Da italiano dico che il problema del Paese è da sempre la mancanza di governi con una visione. L’Italia è anche il luogo più difficile per costruire in Europa. Un edificio che riassume lo spirito dei tempi? The Shard, «la scheggia» di Renzo Piano a Londra. È slanciato, contemporaneo. Qual è l’architetto che l’ha «illuminata»? Brunelleschi. Era un grandissimo organizzatore di spazi. E penso allo splendido colore che ha dato alla cupola del Duomo di Firenze. Da piccolo abitavo a poche decine di metri di distanza. Dia una definizione sintetica per alcuni suoi colleghi. Norman Foster?
Un amico e un eccellente progettista. Renzo Piano? Il miglior architetto che conosca. Rem Koohlaas? È intellettualmente interessante. Bjarke Ingels? Energia pura. Frank Gehry? Un bravissimo scultore. Santiago Calatrava? Più bravo come ingegnere che come architetto.
Ha La Val un d’Orcia. luogo dove È paesaggio lei si riconcilia costruito, con dove la realtà? gli edifici Pienza dialogano con la mia con parte l’ambiente. toscana della D’estate famiglia. sto a Invece, per prendere un drink, lei va a... Londra, al Blue Bar del Berkeley Hotel. Il libro che in lei ha lasciato un segno forte? I diritti presi sul serio del filosofo Ronald Dworkin, sui temi di uguaglianza e giustizia per me cruciali. Il suo «rimpianto architettonico» per un intervento non realizzato? Ho fatto un progetto di recupero delle sponde dell’Arno per rendere fruibile a chi ci vive questa parte di Firenze, com’è successo a Londra. Sarebbe il mio intervento sociale per la città. Che musica ascolta per darsi la carica? Mozart o Bach. Ma anche il jazz di Miles Davis. Ha seguito il dramma del «Morandi», a Genova? Era un bellissimo ponte. Il problema è stata la manutenzione non la sua struttura. In Scozia c’è un ponte che ha cent’anni, ma viene monitorato ogni giorno per vedere se tutto è in ordine. La sua autobiografia titola: Un posto per tutti. Quali nuovi spazi pubblici le piacciono di più?
Quelli di Copenahgen hanno un approccio corretto. Penso a un edificio come il «Diamante nero», con la Biblioteca reale. Abbiamo bisogno di luoghi pubblici, belli, aperti, funzionali. Da architetto, qual è il suo look? Informale. Niente cravatta, tranne in occasioni ufficiali. Preferisco lo stile giapponese: Issey Miyake e Comme des Garçons. Progetterebbe per un luogo futuribile come la città di Dubai? Non mi stimola assolutamente. Per «funzionare» ho bisogno di un luogo con una storia. Il pezzo di carta bianca da riempire da zero non fa per me. Più interessante lavorare a New York. E fondamentale è sempre l’apertura mentale del cliente. Cosa consiglia a un giovane architetto? Di osservare e di capire, prima di agire. Oggigiorno tutte le cose interessanti sono anche complicate. L’architettura come la politica. Disegna a mano o padroneggia la tecnologia? Tracciare uno schizzo per me è fondamentale. Poi, so utilizzare anche le tecnologie. Si considera più realista o idealista? Né tutto di qua, né tutto di là. Nella vita non puoi mai avere un’opzione esclusiva. n