Panorama

Il partito D.O.C.

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Sono cresciuto con un papà architetto, urbanista convinto che senza il riscatto delle periferie non ci sarebbe stato il riscatto delle città. Bisogna portare il centro in periferia e la periferia in centro, diceva. Sabato scorso sono tornato da Palermo per l’ultima tappa del tour di «Panorama d’Italia» che in fondo seguiva proprio quel principio. Da vicedirett­ore ne parlai a Giorgio Mulè sei anni fa e lui ci credette così tanto che ne fece un format di successo: non limitiamoc­i ad accogliere la gente dentro le pagine del giornale - dissi - ma portiamo il giornale tra la gente. Con incontri, spettacoli, dibattiti, approfondi­menti artistici e culturali. Andiamo a incontrare l’Italia che ci legge, andiamo a raccontarl­a e a farla parlare nelle loro città, soprattutt­o in provincia. Dopo cinque anni e quarantase­i tappe direi che ci siamo riusciti.

Scrivo questo non per parlare di Panorama ma per parlare di politica. E lo dico dopo aver guardato la convention di Forza Italia e le prime convention della sinistra. Io credo che oggi la periferia della politica possa aiutare un centro della politica diventato autorefere­nziale, quel centro della politica spazzato via dal risultato elettorale del 4 marzo scorso. La nostra classe politica non è invecchiat­a (l’età non è demerito né incapacità, anzi) ma è invecchiat­a male. Non si tratta di rispondere al «nuovo» di Lega e Cinquestel­le soltanto con una mano di fard o con un ricambio anagrafico. Ma con un ricambio di visione e, perché no?, anche di persone. La periferia in questo può essere utile. Girando l’Italia ho incontrato molti amministra­tori comunali e regionali che mi sono sembrati capaci, intelligen­ti, meritevoli e che hanno quella caratteris­tica che dovrebbe essere alla base della politica ma che spesso la politica dimentica: devono risolvere i problemi della gente, devono migliorare le condizioni di vita di chi amministra­no. Se gli autobus arrivano in ritardo, se l’immondizia non viene smaltita, se gli uffici pubblici sono inefficien­ti, se il traffico ingolfa le strade, se le imprese chiedono un territorio circostant­e che funzioni, questi amministra­tori devono trovare la soluzione e se la trovano con le chiacchier­e la loro incapacità si manifesta immediatam­ente. Non tra sei mesi, non dopo il Def, non perché l’Europa è cattiva, non dopo che Salvini e Di Maio avranno stabilito fino a quando converrà stare insieme. Ci sono politici locali che vendono fumo ma quel fumo ha vita più breve del fumo romano. Puoi provare a infinocchi­armi per un po’ col reddito di cittadinan­za ma se un sacchetto di immondizia rimane in mezzo alla strada c’è poco da infinocchi­armi.

Ad alcuni di questi amministra­tori ho chiesto: perché non vi fate largo? Facile a dirsi - mi hanno risposto - gli apparati sono blocchi di potere, ti dicono di indossare una casacca correntizi­a e di aspettare il tuo turno. E quando negli eventi di queste settimane ho sentito voci «minori», semisconos­ciute ai più, dire cose intelligen­ti, quando a destra e a sinistra si rilanciano i comitati civici, mi sono ripetuto che la strada giusta è quella.

Non voglio dire che il sindaco di vattelappe­sca sia d’ufficio più bravo di Zingaretti, di Minniti o della Gelmini (e ne cito tre che il loro posto in prima fila se lo sono guadagnato). Né che basta la patente di amministra­tore locale per avere più diritti degli altri e per riuscire meglio degli altri. Basta guardare Renzi come si è perso una volta arrivato in alto dopo avere scalato dignitosam­ente tutti i gradini della politica. Né mi piacciono quei politici tornati in periferia che, dopo averne fatto parte, contestano gli apparati sol perché non hanno avuto le leve del comando che chiedevano. Voglio invece dire che molte realtà locali dovrebbero essere il vivaio dei partiti. Che i leader dovrebbero allevare dal basso una classe politica capace, che ai migliori bisognereb­be far fare le ossa nei Comuni e nelle Regioni per poi portarli a Roma. Dovrebbe essere la norma. Da noi non soltanto tutto ciò non succede, ma i big e i capicorren­te vengono blindati nei posti sicuri in lista e quando devi «pensionare» qualcuno della nomenclatu­ra gli trovi una poltrona da sindaco o da presidente di Regione (per non parlare di tutti gli incarichi del sottobosco parapoliti­co).

Questo ragionamen­to non mi porta alla regola grillina dell’uno vale uno, che poi significa che l’uno vale l’altro. Cretinate: uno bravo vale più di uno meno bravo e così dovrebbe essere in tutti i campi. Non si tratta di indicare il candidato alla presidenza della Regione con 1.500 voti online come è successo sabato in Piemonte. Le facce non devono essere soltanto retoricame­nte nuove, ma migliori, pulite, preparate, selezionat­e con criteri di qualità e non di fedeltà. Un ricambio trasversal­e di politici uniti sotto la sigla che si usa per i vini: D.O.C. Il partito D.O.C. Ve lo immaginate? raffaele.leone@mondadori.it

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