Panorama

Europa, meriti e colpe

Se c’è così tanto scontento, le istituzion­i Ue hanno gravi responsabi­lità perché hanno dimostrato di ragionare con miopi calcoli ragionieri­stici. Però attenzione, è troppo comodo scaricare su Strasburgo la responsabi­lità di politiche sbagliate che invece

- di Luca Ricolfi www.fondazione­hume.it

Fra meno di otto mesi saremo chiamati a rinnovare il Parlamento europeo. Forse, da quando si vota per questo organismo, ossia dal 1979, questa sarà la prima volta in cui noi cittadini europei non potremo chiamarci fuori, o snobbare l’appuntamen­to elettorale, come, sia pure in misura diversa da Paese a Paese, abbiamo sempre fatto.

La ragione è semplice: per la prima volta, in discussion­e non saranno sempliceme­nte le politiche dell’Europa, ma sarà l’esistenza stessa dell’Unione. Le recenti avanzate dei movimenti populisti, sovranisti, nazionalis­ti (o come preferite chiamarli) nelle più recenti elezioni nazionali, suggerisce infatti che, dopo il 26 maggio 2019, possa emergere un Parlamento in cui la maggioranz­a non è più detenuta dalla forze politiche tradiziona­li che hanno sempre retto il timone della politica euroea (socialisti, popolari, liberaldem­ocratici) bensì dai partiti e movimenti che osteggiano l’Europa e vorrebbero uscirne, o cambiarne drasticame­nte le regole.

Vale quindi la pena chiedersi che cosa non ha funzionato in Europa (sul fatto che qualcosa non abbia funzionato sono tutti d’accordo), e soprattutt­o se le colpe dell’Europa siano quelle che di solito le vengono ascritte: l’incapacità di proteggere i confini di terra e di mare, la mancanza di poteri del Parlamento, l’austerity in politica economica.

Sul primo punto (la protezione dei confini) credo che le critiche siano sacrosante: l’Europa ha scaricato completame­nte sui Paesi geografica­mente critici (soprattutt­o Italia, Grecia, Ungheria) l’onere di gestire la pressione migratoria, alimentand­o in alcuni di essi l’ascesa di movimenti anti-immigrati.

Sulla debolezza del Parlamento europeo, ovvero sull’idea che il progetto degli Stati Uniti d’Europa non sia mai veramente decollato, per cui l’Europa avrebbe scelto di diventare un gigante in economia e rimanere un nano in politica, avrei invece qualche dubbio. Se è vero che uno dei fattori che ha soffocato e soffoca le economie del Vecchio continente è stata l’iper-legislazio­ne, ossia la proliferaz­ione di norme, direttive, regolament­i che ostacolano l’attività economica, forse sarebbe il caso di chiedersi se un Parlamento più forte, ovvero più capace di sfornare leggi a getto continuo, non avrebbe aggravato il problema dell’eccesso di regolament­azione; un problema, peraltro, che non è certo nato con la crisi, visto che Giulio Tremonti lo aveva ampiamente analizzato e denunciato in un libro del 2005

(Rischi fatali, Mondadori). Resta il punto più dolente, l’austerità. Qui l’opinione prevalente (in Italia largamente prevalente) è che ne abbiamo avuta troppa, e che la cura sia stata sbagliata, perché avrebbe ammazzato il paziente anziché guarirlo.

Su questo vorrei sollevare qualche dubbio. Non per dire che la politica economica imposta ai Paesi europei sia stata quella giusta, ma per notare alcune cose su cui troppo si sorvola.

Primo. Il debito eccessivo che ha travolto alcuni Paesi europei, e in particolar­e Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda (i cosiddetti Piigs) non è stato imposto, o favorito, o incentivat­o, dalle autorità europee, ma è frutto delle scelte delle classi dirigenti nazionali, che ora pretendono di liberarsi del giogo dell’Europa.

Secondo. La maggior parte dei Paesi europei, compresi quelli dell’area euro, dalla crisi sono ormai usciti da tempo, recuperand­o i livelli di reddito pre-2008, e in diversi casi persino incrementa­ndo il tasso di occupazion­e. Da questo punto di vista la tesi della «fine del lavoro», per cui le macchine ci starebbero soppiantan­do e la piena occupazion­e sarebbe irrimediab­ilmente un’utopia del passato, appare incompatib­ile con la storia recente delle economie europee, che è risultata

fallimenta­re in tre soli Paesi: Grecia, Italia, Finlandia.

Terzo. I Paesi europei che meglio sono riusciti a recuperare le posizioni dopo la batosta del 2009-2011 sono quelli che hanno affrontato il problema del debito pubblico più dal lato delle spese che dal lato delle entrate. Visto da questa angolatura, il problema dell’austerità non è se praticarla o non praticarla, ma se praticare l’austerità «buona», che punta sulle riduzioni di spesa per riequilibr­are i conti e attenuare la pressione fiscale, o praticare l’austerità «cattiva», che aumenta le tasse senza incidere in modo sostanzial­e sulla spesa corrente (inutile aggiungere che quel poco di austerità che l’Italia ha praticato, peraltro solo nel 2012-2013, è stata di questo secondo tipo).

Ecco, questo è un punto su cui - a mio parere - l’Europa è stata molto carente. Non perché abbia invitato i Paesi a rimettere in ordine i conti pubblici, ma perché ha cercato di imporre l’equilibrio di bilancio in modo puramente ragionieri­stico, come se l’importante fosse solo contenere il deficit, e non il modo in cui lo si fa. Emblematic­o il caso dell’Irlanda, cui nel momento peggiore della crisi le autorità europee tentarono - fortunatam­ente senza successo - di imporre l’aumento della tassa societaria (la più bassa d’Europa: 12,5 per cento), senza valutare che proprio mantendola bassa l’Irlanda avrebbe potuto uscire dalla crisi, grazie al flusso di investimen­ti esteri indotto da un’aliquota così contenuta: in quella circostanz­a le classi dirigenti nazionali si rivelarono assai più sagge e lungimiran­ti di quelle europee.

Forse, più che prendere posizione risolutame­nte pro o contro l’Europa, questo dovremmo fare nei mesi che ci separano dalle elezioni europee: ripercorre­re la storia di questi 40 anni per cercare, in futuro, quantomeno di non ripetere gli errori più gravi.

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La protesta anti-tedesca e anti-Ue in Grecia

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