Marco e Nicola, gli uguali diversi
Minniti e Zingaretti hanno un passato politico affine, ma poi la loro storia diverge... Ecco chi sono davvero i candidati alle primarie Dem che devono rianimare il partito.
Cosa unisce (e cosa divide) Nicola e Marco, i fratelli-coltelli in lotta per la leadership del Pd? Osservate per un momento l’ultima foto di famiglia del partito prima delle elezioni di marzo, e capirete subito perché nelle prossime primarie lo scontro sarà fra Zingaretti e Minniti. Nell’ultima istantanea dell’era renziana scoprirete che nei primi cinque posti-chiave della loro rappresentanza istituzionale i Dem schieravano soltanto uomini che venivano dalla storia della Dc, del Ppi o della Margherita. Solo così si spiega perché adesso si torna bruscamente a due post-comunisti, e di che tipo particolare. Due che - come vedremo - per paradosso hanno lo stesso dna: quello dalemiano. Intorno a loro si agitano altri candidati minori - quattro o cinque - che (con l’eccezione di Matteo Richetti) vengono tutti da sinistra.
Per capire la sfida di oggi, dunque, bisogna capire questo strano contrappasso: in un mondo capovolto in cui l’incontro tra Matteo Salvini e Marine Le Pen si svolge a Botteghe Oscure (oggi in quella via non c’è più il partitone rosso, ma la sede del sindacato di destra Ugl) al Nazareno si sfidano due dirigenti formati entrambi alla scuola delle Frattocchie. Questo accade per una sorta di reazione di rigetto: dopo gli ultimi cinque anni di governo di centrosinistra, infatti, il Pd poteva vantare un presidente della Repubblica ex Dc, Sergio Mattarella, un presidente del consiglio ex Margherita, Paolo Gentiloni, un capogruppo alla Camera ex Dc, Ettore Rosato, e un capogruppo al Senato ex cossighiano, Luigi Zanda. Troppo anche per lo «zoccolo duro» del partito, che infatti nelle urne è stato schiantato (perdendo 2,5 milioni di voti verso il M5s, e mezzo milione verso la Lega). Perciò, ora, la parola d’ordine sottintesa è «indietro tutta». Per questo, malgrado le apparenze, è curioso osservare come sia Zingaretti sia Minniti - parafrasando una celebre massima di Palmiro Togliatti - vengano da lontano e vadano «lontano». Ma in cosa si dividono davvero?
Per capire le differenze, le storie personali sono importanti. Minniti, figlio di un ufficiale dell’Aeronautica fu una sorta di
enfant prodige del Partito comunista. A 24 anni era già segretario cittadino di Reggio Calabria nel lontanissimo 1980 - «più di un secolo fa» come dice lui ridendo - dopo il cursus honorum classico e la gavetta dal basso («compresi i turni di vigilanza armata nella sede cittadina»). L’ex ministro dell’Interno viene da una famiglia conservatrice e resta memorabile l’aneddoto, che lui stesso racconta, sul dialogo intergenerazionale con un padre tutto d’un
pezzo. «Era arrivato il ’68, con tutte le sue suggestioni: il privato, il femminismo, i rapporti sentimentali, e io» ci ha raccontato Minniti, «dissi a mia madre che mi pesava di non avere un dialogo con lui». Il vecchio Minniti, informato dalla moglie di questo malessere rimase stupefatto e gridò: «Dice che non abbiamo dialogo? Ma se gli permetto di darmi del tu!». Sembrava una concessione incredibile, a lui che al padre dava del «voi».
Zingaretti viene da una famiglia comunista. Siamo nel popolarissimo quartiere romano del Montagnola. Madre appassionata e militante. Il fratello di Nicola, Luca - non ancora assurto alla gloria nei panni del Commissario Montalbano - frequenta i movimenti e poi si iscrive al Pdup (a sinistra del Pci). Mentre Nicola è un militante di base della Fgci, la federazione giovanile comunista. Poi c’è la terza sorella, Angela, la più pacata del trio. E di tutti e tre Nicola dice con autoironia: «Siamo molto diversi. Luca è più irascibile, io più riflessivo, Angela più organizzativa. Solo insieme - a ben vedere - facciamo una persona perfetta». Il nonno di Zingaretti, Angelo di Capua, era ebreo. Si è salvato avventurosamente dal rastrellamento dell’ottobre1943.
Minniti cresce nel Pci berlingueriano e nella Fgci di Massimo D’Alema, il suo vero maestro politico. Ma la scuola è la stessa per Nicola: disciplina, autocontrollo, ars politica e L’arte della guerra di Sun Tzu sul comodino. Zingaretti muove i primi passi nel Pci romano, discepolo di Goffredo Bettini, segretario della federazione cittadina, anche lui uomo vicinissimo all’ex premier.
Dopo la nascita del Pds Nicola diventa il primo segretario della Sinistra Giovanile, e Marco entra a Palazzo Chigi con il leader maximo: «Ci chiamavano “i Lothar”, perché nello staff di D’Alema avevano tutti il cranio rasato a zero. In un mondo già attento all’immagine si cercavano significati reconditi. Mentre io mi rasavo semplicemente perché avevo perso i capelli!».
Zingaretti sotto la segreteria di D’Alema viene designato alla guida dei giovani socialisti d’Europa, incarico prestigioso che poi lo porta naturalmente, nel 2004, a un seggio a Strasburgo. Minniti racconta che nel 1999 girava per le stanze di Palazzo Chigi, dove regnava l’entusiasmo per il primo ex comunista al governo, e bussando alle porte per smorzare gli entusiasmi diceva: «Fratello! Ricordati che devi morire». Era così vero che solo due mesi dopo D’Alema fu costretto a dimettersi per la sconfitta nelle elezioni regionali 2000 (che
prepararono la riscossa di Silvio Berlusconi del 2001).
È in questo momento che i due figli dell’apparato, dopo aver raggiunto (apparentemente) l’acme hanno una intuizione vincente: abbandonano gli incarichi di partito e si immergono nei due terreni che gli permettono di rigenerarsi la carriera: uno da grand commis
d’état, l’altro da amministratore locale. Se si vuole capire il percorso di Minniti bisogna andare in via del Nazareno, ma superare la sede del Pd. Se citofoni in un portoncino discreto e poco visibile, proprio di fronte al quartier generale del Pd, ti trovi in una fondazione discreta e spartana, che in Italia è diventato un think
tank influentissimo: si chiama «Icsa» ed è stato il fiore all’occhiello, il rifugio e la casa di Minniti. Il trampolino che lo ha catapultato sulla poltrona del ministero dell’Interno, dopo un lungo interludio tra i suoi due sottosegretariati, entrambi con la delicatissima delega ai Servizi segreti: il primo - come abbiamo visto - da dalemiano nell’era dalemiana. Il secondo da renziano nell’era renziana. Qui Minniti, che ha il record di longevità italiana al governo (19 anni dal primo all’ultimo mandato), ha intrattenuto relazioni geopolitiche col mondo è con gli apparati dello Stato, ha posto le basi per entrare nella stanza da ministro dell’Interno, dove si tolse persino il vezzo di recuperare la scrivania che al Viminale fu di Benito Mussolini. Un giorno Giuliano Ferrara scrisse un editoriale memorabile su di lui e sulla scrivania, annunciando di esser andato al ministero «a controllare». In quei tempi il Foglio era amichevolmente caustico con i dalemiani, l’Elefantino controllò, parlò e chiuse il suo editoriale con questa battuta: «La scrivania è in buone mani».
Non si capiscono l’accordo con le tribù libiche e la strategia internazionale di Minniti
Il tallone d’Achille di Minniti è Matteo Renzi. Zingaretti ha i voti dei 5 Stelle
senza passare per l’«Icsa» (e per quella scrivania), questi vent’anni da uomo di Stato hanno trasformato il giovane ragazzo eterodosso che promuoveva in Calabria la prima lista senza il simbolo del Pci (prima della sua fine) in quel che è oggi.
Per capire Zingaretti, invece, devi entrare con lui Il 30 aprile 2008 a Palazzo Valentini, sede del presidente della Provincia di Roma. E poi alla Regione, alla Pisana. Zingaretti vince il primo ballottaggio con il 51,48 per cento e poi ripete sempre l’impresa. I numeri sono importanti perché dopo quel risultato esplose una polemica devastante con la Margherita, convinta - dalla differenza dei voti - che «i dalemiani» avessero favorito Nicola boicottando il ritorno di Francesco Rutelli. Ma Zingaretti ripete il colpo anche nelle ultime politiche, dove di nuovo prende 350 mila voti più del suo partito (ancora una volta nello stesso giorno): «Ho questo difetto» dice ridendo «vinco controtendenza».
Nel 2012 e nel 2013 - pur avendone la possibilità - si rifiutò di sfidare Renzi dopo la segreteria Bersani (che stravede per lui). Vive in modo sobrio, senza scorte o pennacchi. Chiunque frequentasse il quartiere Mazzini, dieci anni fa, lo poteva trovare ogni mattina ad accompagnare le figlie a scuola. Dalla Provincia Zingaretti ha traslocato alla Regione, per due mandati.
Entrambi i duellanti, dunque, hanno punti di forza e tallone d’Achille. Entrambi hanno un possibile candidato premier in tasca: Minniti con Carlo Calenda (che è suo amico ed estimatore) e Zingaretti con Paolo Gentiloni (zio di Umberto, suo storico amico e collaboratore). Il tallone d’Achille di Zingaretti, per ora, è la sua bassa notorietà a livello nazionale, e la sua tradizionale prudenza, in una battaglia che si impone di essere giocata tutta in attacco. Il punto debole di Minniti è il supporto ingombrante di Matteo Renzi che, con i suoi sindaci ha patrocinato la candidatura. Una differenza importante c’è: Minniti è stato un convinto sostenitore del «no» all’accordo con il M5s. Zingaretti - altra dimostrazione delle sue doti da grande incassatore - governa grazie ai voti di Roberta Lombardi, che in campagna elettorale lo definì: «Uomo del sistema di mafia capitale». Lui non ha battuto ciglio e ci si è accordato.
Il grande discrimine programmatico, dunque, è sul tema dell’immigrazione. Zingaretti che a 23 anni, con il suo amico Giampiero Cioffredi, fondò l’associazione «Nero e non solo» sul modello francese, propone il modello di integrazione classico della sinistra. Minniti ha rotto con la tradizione della sinistra proprio quando dal Viminale, lanciò il celebre allarme: «Durante l’emergenza immigrati ho avuto paura per la tenuta democratica del Paese». E lo fa ancora oggi, quando dice: «Salvini da risposte sbagliate a domande giuste. La Lega riconosce le paure della gente e le usa. Ma la sinistra non deve negarle e deve dare loro risposte».
Non è un caso che lo scrittore Erri De Luca, grande critico di Minniti («È stato un ministro sbirro») oggi abbia dichiarato il suo entusiasmo per Nicola: «È la sola possibilità di rinnovamento». Alla fine fatalità vuole che la sinistra, dopo aver perso le politiche - come ha dimostrato l’analisi dei flussi elettorali del professor Roberto D’Alimonte - sul problema dell’immigrazione, scelga il suo leader proprio dividendosi su questo tema.