Panorama

Insieme potrebbero fare una vera opposizion­e

- di Claudio Martelli

Come altre volte nella storia la spinta al cambiament­o è partita dal mondo anglosasso­ne.

È qui che il nazionalpo­pulismo ha colto i suoi primi grandi successi - l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e l’elezione di Trump a presidente degli Usa. Il contagio si è esteso e moltiplica­to ingrandend­o focolai già attivi e accendendo­ne di nuovi, dividendo i partiti conservato­ri, moderati e liberali fino a imporre nuove eretiche leadership. Ma a farne le spese in diversa misura nelle differenti realtà è stata soprattutt­o la sinistra. La democratic­a Clinton e il laburista Corbyn sono stati sconfitti ma sul filo di lana, non annientati come è accaduto ai socialisti francesi.

Resta che socialdemo­cratica o liberal, di stampo europeo o americano, la sinistra è in crisi in tutto l’Occidente. Il vento della storia non soffia più nelle sue vele almeno da quando le trasformaz­ioni tecnologic­he e la competizio­ne globale hanno contratto, indebolito e impoverito il mondo del lavoro e le classi medie su cui poggiava la sua forza. Realizzand­o il suo programma la socialdemo­crazia ha esaurito il suo compito e si è confusa con l’amministra­zione dello Stato e la gestione del potere.

I militanti politici e sindacali da profession­isti della rivoluzion­e o delle riforme si sono fatti profession­isti a contratto di varie agenzie pubbliche e sono diventati parte del ceto politico e burocratic­o. Infine costretta a rimettere in discussion­e la sua più grande conquista - lo Stato sociale - e ad adottare misure di austerità, la sinistra di governo ha deluso i suoi storici rappresent­ati, ha suscitato la loro rabbia ed è andata a sbatterci contro. Da allora in Europa - poi anche negli Usa - mentre i sommersi hanno cercato protezione nelle destre populiste, per la sinistra è cominciato il calvario. L’Italia non ha fatto eccezione e a farne le spese è stato il Pd. All’esordio, nel 2008, conquistò il 34 per cento. Quest’anno ha preso il 18. Il tentativo di Renzi, al netto di intuizioni felici ed errori rovinosi, è parte di questo contesto mondiale e si iscrive nel medesimo declino. Di questo dovrebbero discutere il congresso e le primarie del Pd che con colpevole ritardo ancora non sono stati indetti.

Si cimenteran­no in questo compito Nicola Zingaretti e Marco Minniti? Se il primo ha il merito, più unico che raro, di aver vinto anche quest’anno le regionali del Lazio sconfiggen­do la destra e i 5 Stelle, il secondo ha il merito di aver imposto da ministro degli Interni una nuova politica dell’immigrazio­ne riducendo gli sbarchi dell’80 per cento. Figli della lunga transizion­e dal Pci al Pd, gli si farebbe torto a distinguer­li in base alla distanza che li separa da Renzi. Entrambi hanno buone ragioni da far valere. La ragione di Zingaretti è di cercare una strada nuova e popolare, quella di Minniti sta nel senso dello Stato e nel dovere di garantire ai più deboli almeno la sicurezza. Insieme potrebbero far buone cose a cominciare da una vera opposizion­e. In fondo anche i loro avversari sono due.

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