È Moon Jae-In l’uomo dell’anno
Figlio di esuli, poverissimo e ostinatissimo, un giovane nerd è diventato il capo di Stato che ha scommesso tutto sulla pace con la Corea del Nord. La determinazione del leader sudcoreano ha trascinato Trump e il dittatore Kim Jong-un, e la riunificazione
Nessuno meglio del presidente sud-coreano Moon Jae-in può confermare che per smuovere le montagne servono ottimismo, perseveranza ed empatia. «Quando iniziò a lavorare nel nostro studio legale, sembrava un nerd: schivo, riservato, perennemente piegato sulle sue carte» ha raccontato l’ex collega Seol Dong-il. «E invece semplicemente era il giovane avvocato più determinato di tutta la squadra. L’unico capace di trasformare sogni impossibili in traguardi raggiungibili». Il suo sogno più grande? La riunificazione della penisola coreana. Uno scenario che, proprio grazie a Moon, diventa ogni giorno più realistico.
«Se non guardiamo avanti e non ci proiettiamo verso il futuro con ottimismo, non raggiungeremo mai alcun obiettivo. Mi hanno spesso dato dell’illuso per la mia scelta di abbattere i muri tirando uova» ha raccontato il presidente in un’intervista alla Cnn. Invece, con il senno di poi, costanza e determinazione si sono rivelate un’arma invincibile.
Moon ha sempre pensato in grande. Da ragazzo, negli anni Settanta, scese in piazza per protestare contro la dittatura di Park Chung Hee. Un azzardo che gli costò l’arresto immediato e diversi anni di carcere. Negli anni Ottanta, da avvocato, iniziò a sognare di potersi trasferire a Hungnam, la città natale dei genitori, nel Corea del Nord, per offrire gratuitamente la sua professionalità a chiunque ne aves-
se bisogno. Oggi, da presidente, ambisce a essere ricordato come «l’uomo che ha trasformato la Corea in una vera democrazia, che ha riportato la pace tra Nord e Sud e che è riuscito a mettere in piedi un sistema economico solido ed egualitario». Quello che unisce Moon alla Corea del Nord è un legame molto intimo. Classe 1953, è nato a Sud per pura coincidenza: i genitori erano fuggiti dal Nord negli anni della guerra di Corea. Avevano trovato rifugio sull’isola di Geoje, poi si erano spostati a Busan, dove il papà lavorava in un campo per prigionieri di guerra e la mamma vendeva uova al mercato.
La sua è stata una vita in salita: da ragazzino l’unica preoccupazione era aiutare i genitori a mettere in tavola cibo sufficiente per sfamare una famiglia di sette persone. Così si avvicinò alla religione cattolica: era lui che, a piedi (troppo povero per potersi permettere una bicicletta), raggiungeva la chiesa e restava in fila per ore per ricevere riso, latte in polvere o qualsiasi altro bene disponibile. La famiglia di Moon ha vissuto sempre ai margini della società (i rifugiati in Corea del Sud sono guardati con sospetto oggi: figuriamoci negli anni della guerra). Eppure, con perseveranza, generosità e ottimismo il giovane Jae-in ha trovato il suo spazio. Che ha poi trasformato nella sua missione: aiutare le persone in difficoltà.
«Moon ha appreso dalla madre lo spirito di sacrificio, la gioia e la soddisfazione derivanti dall’aiutare chi è in difficoltà. Ma anche il padre ha giocato un ruolo chiave nella sua formazione» ha raccontato un ex compagno di classe. «Riuscire negli studi per lui era essenziale. Per un periodo fu allontanato dalla scuola perché i genitori non riuscirono a pagare la retta. Tornò più determinato di prima. Era il più preparato di tutti. Leggeva tantissimo, grazie al padre: ogni volta che tornava dal lavoro, gli portava un libro da approfondire». Moon Yong-hyung era stato un funzionario del regime del Nord. Era scappato quando si era reso conto che Kim Il-sung, pur millantando i meriti del comunismo, in realtà si curava solo dei
suoi interessi. «Moon Jae-in, come suo padre, odia il comunismo, ma crede nel socialismo. Per questo parla sempre di fratellanza, uguaglianza e pace».
Chi lo ha conosciuto lo descrive come un uomo tutto d’un pezzo che osserva, ascolta, studia e poi si schiera dalla parte dei più deboli. Sempre. «Ho problemi alle gambe da quando sono nato» racconta il giudice Kim Jung-hak, che ha conosciuto il presidente alle scuole superiori. «Non riesco a camminare autonomamente e non ricordo giorno in cui Moon non mi abbia sostenuto. Una volta mi aiutò persino in gita: mi diede il coraggio di partecipare all’escursione e mi portò sulle spalle per tutto il tragitto. Fece una grande fatica, ma non si lamentò mai. Si fermava per raccogliere le forze, ma non cedeva. Né perdeva sorriso ed entusiasmo».
Moon è un combattente. Negli anni della dittatura del generale Park Chunghee sapeva che scendere in piazza per la democrazia, quella vera, significava cacciarsi nei guai. Lo fece e ne pagò le conseguenze, finendo in carcere. Terminò gli studi alla Kyung Hee University di Seul con diversi anni di ritardo e superò l’esame di avvocato, pur sapendo che la condanna subita gli aveva chiuso le porte della carriera giuridica. Poco importa: voleva aiutare le persone più sfortunate e meno istruite di lui e per farlo non aveva bisogno dell’approvazione del regime. Iniziò a lavorare, spesso gratis, in un piccolo studio a Busan. Nel 1981 sposò la cantante Kim Jung-sook, conosciuta all’università. All’epoca Moon era concentrato solo sul lavoro, tant’è che senza l’intraprendenza di Jung-sook (fu lei a decidersi a chiedergli la mano) questo matrimonio probabilmente non si sarebbe celebrato.
Durante la sua prima esperienza lavorativa Moon conobbe la seconda figura di riferimento nella sua vita: Roh Moo-hyun. Lo stesso che, nel 2003, sarebbe eletto presidente della Corea del Sud scegliendo Moon come consigliere. «Quelli della presidenza Roh sono stati anni chiave per la formazione di Moon» ha raccontato un altro funzionario che ha lavorato con lui in quel periodo. «I due erano in perfetta sintonia, si fidavano l’uno dell’altro e avevano sposato un’agenda che metteva al centro le necessità del popolo e il riavvicinamento al Nord».
Il 2004 è forse stato l’anno più difficile della sua vita. Da un lato la «macchia» di un’assenza ingiustificata dal lavoro: messo in difficoltà dall’eccessiva visibilità ottenuta, lasciò l’incarico per andare a scalare l’Himalaya. Dall’altro il viaggio al Nord con la madre, nella città natale dove vivono ancora oggi diversi parenti. Esperienze che il presidente ricorda ancora con grande emozione. Moon non è mai stato a suo agio sotto i riflettori e anche per questo non parla mai dei due figli. Preferisce raccontare dei suoi animali, un gatto e due cani, e delle piante del suo giardino, cui tiene moltissimo.
Il suicidio del suo maestro Roh nel 2008 fu un brutto colpo, ma segnò anche il momento in cui Moon si rese conto di quanto il suo destino fosse legato a doppio filo con quello dell’intera penisola. Il Sud non poteva essere lasciato in mano ai conservatori. Era diventato più urgente che mai cambiare la politica economica nazionale per aiutare di più il popolo e bisognava arrivare alla pace con il Nord.
A inizio 2017, l’uscita di scena della presidente Park Geun-hye, figlia del generale Park in carica dal 2013, per una vicenda di corruzione. L’impeachment di Park ha spalancato le porte a Moon Jae-in, che vinse le elezioni con il 41 per cento di preferenze. Un voto di protesta per l’amministrazione uscente più che un plebiscito per il nuovo leader, allora con-
siderato un politico debole, schivo, potenzialmente manipolabile. Consapevole di questo pericoloso biglietto da visita, il presidente ha usato la sua strategia per conquistare tutti. E ci è riuscito, dando la priorità a quella che considera la sfida più urgente: quella nordcoreana. Con acume diplomatico, Moon ha sfruttato sesto senso e pragmatismo per rendere possibile un dialogo con Kim Jong-un, culminato con un incontro a Panmunjom (sulla linea di confine) e a Pyongyang. E persino un vertice Corea del Nord-Stati Uniti.
Chissà come si sarà sentito, il 27 aprile scorso, a piantare nella zona demilitarizzata un albero della pace. Proprio lui che, nel 1976, da soldato di leva, fu chiamato dal generale Richard Stilwell, allora comandante delle forze armate Usa in Corea del Sud, a far sparire un altro albero che, per un’incomprensione, aveva provocato il massacro a sangue freddo di due soldati alleati. Momento che Moon ricorda ancora con grande lucidità, convinto che «se l’esercito del Nord avesse tentato di bloccarci, le due Coree sarebbero tornate in guerra». Un diplomatico a lui vicino lo descrive come «educato e quasi modesto, sorridente, capace di trasmettere in ogni situazione calma e tranquillità».
Moon ha imparato negli anni a sfruttare le luci della ribalta per mettere in evidenza i suoi sogni. Trasformandosi nel leader del «tutto è possibile», in pochi mesi ha toccato tassi di approvazione superiori al 70 per cento. Senza la sua mediazione non sarebbero stati possibili né l’incontro tra Kim Jong-un e Donald Trump, né la chiusura delle prime centrali nucleari. Neppure si sarebbe mai parlato di trattato di pace o di ospitare insieme le Olimpiadi del 2032. Infine, da quando il Paese ha cominciato a dubitare che a Moon interessi più la Corea del Nord che l’economia nazionale, «il presidente ha iniziato a parlare del Nord non in termini di crisi, bensì di opportunità per la pace e per l’economia» conclude il diplomatico.
Il fatto che Moon al momento si trovi in Occidente per discutere con Parigi, Roma, Bruxelles e Copenaghen su come allentare la morsa delle sanzioni imposta da Washington conferma che continua ad andare avanti per la sua strada in piena autonomia, cercando di coinvolgere di l’Europa in questo processo di distensione. La tappa in Vaticano del 18 ottobre è la più speciale del tour: Moon ha portato al Papa l’invito di Kim Jong-un a recarsi a Pyongyang. Un gesto che conferma come quest’uomo straordinario abbia davvero le qualità, e l’ottimismo necessari per cambiare il mondo.