Dobbiamo puntare su di noi, non sull’elemosina di Stato
Ci sono due buone ragioni per respingere con vigore ogni forma di assistenzialismo:
una di ordine economico, l’altra di ordine etico. L’assistenza costa, ma è un costo ritenuto accettabile per consentire un livello base di benessere che risponda, se non a ragioni di solidarietà, a ragioni di ordine pubblico. L’assistenzialismo, invece, è uno spreco, e non solo per questioni di inefficienza. In maniera più importante, chi redistribuisce le risorse rischia di farsi ammaliare dalle sirene del consenso politico, dissipando i soldi dei contribuenti. Sul piano etico, l’assistenza offre una garanzia
di sicurezza e protezione dal bisogno per chi non è in grado di farcela da solo. Nell’assistenzialismo, invece, germina il seme dell’indolenza, si sminuisce il valore edificante del lavoro, si esalta quello della compiacenza verso il «generoso» sovrano.
La «Repubblica fondata sul lavoro», con cui si apre la Costituzione, non vuol dire che ognuno ha diritto a che gli venga garantito un lavoro, magari sempre quello. Vuol dire che è dall’applicazione delle energie mentali e fisiche di ciascuno di noi, per quanto è nelle nostre capacità, che si costruisce una società prospera e libera. Ogni forma di intervento pubblico che svilisca questo principio contribuisce a erodere la libertà di un popolo, fiaccandolo all’elemosina di Stato.
Una critica comune al reddito di cittadinanza è di essere una misura di mero assistenzialismo e non di assistenza. Ritenere, in astratto, che il reddito di cittadinanza sia pura espressione dello Stato padre/padrone, il quale in cambio della paghetta esercita su di noi la patria potestà, vuol dire non avere presente che la stessa dinamica di paternalismo e soggezione si può avere anche nel welfare tradizionale. Anche qui, infatti, lo Stato indica delle priorità, incentiva dei comportamenti rispetto ad altri, esplicita delle preferenze. Quando accredita un corso universitario, sta spingendo i giovani di un determinato territorio verso importanti scelte di formazione e lavoro; quando apre un asilo anziché una casa per anziani (o viceversa) sta dicendo alle persone di fare figli (o non farli).
La differenza tra essere trattati come imbelli minorenni o no non è quindi la differenza tra il reddito di cittadinanza e il welfare sociale. Sarebbe facile se fosse così: basterebbe rigettare il primo e tenersi il secondo. La differenza sta, invece, nel modo in cui tanto l’uno quanto l’altro si vogliono costruire. Date le premesse, per ora solo a parole e slo
gan, del reddito di cittadinanza dell’attuale governo, stiamo giocando col fuoco. Non tanto perché il ministro Di Maio ha evocato gli acquisti morali che, insieme alla sortita del sottosegretario Borghi sull’italianità dei prodotti, ricorda tristi velleità autarchiche. Rispettare queste condizioni vorrebbe dire non istituire un reddito di cittadinanza, ma tornare all’annona: ipotesi, per il momento, lontana. Piuttosto, sono le vaghe e confuse idee sugli scopi e le condizioni che non scansano il pericolo di una deriva assistenzialistica, ai limiti della sudditanza: se mal congegnato, il reddito di cittadinanza creerà una consistente categoria sociale a libro paga del governo, senza nemmeno la fatica del lavoro, ma col solo obbligo della fedeltà. Nel welfare di servizi, il difficile è erogarli in maniera equa e efficiente. In quello in denaro, è organizzarlo a monte in maniera equa e efficiente. Mescolare obiettivi di ripresa economica e aiuto ai bisognosi, accostare reddito e pensione di cittadinanza, condizionare il primo a deboli impegni di ricerca di un lavoro, parlare di stimolo ai consumi come se fosse un modo di creare valore e ricchezza sono solo i primi segnali che rendono auspicabile che il reddito di cittadinanza sia per ora messo in un cassetto. n © RIPRODUZIONE RISERVATA