Fuoco amico
Dal revisionismo storico al passaporto agli altoatesini, dai respingimenti al Brennero alle bacchettate economiche a Roma... Tutti i giri di valzer del cancelliere austriaco, il popolar-populista Kurz.
N ei testi scolastici delle medie austriache, rieditati dopo l’impetuoso avvento del popolaresovranista Sebastian Kurz, enfant prodige di cui si annota il rapporto di stima con Matteo Salvini, l’italico Risorgimento viene dipinto come la criminosa impresa di furbastri nazionalisti intenzionati a spaccare l’illuminato Paradiso globalista dell’Impero austro-ungarico. Cavour, Mazzini e Garibaldi? Affaristi senza scrupoli. Cecco Beppe e il suo spietato feldmaresciallo Radetzky? Governanti amanti del popolo, indegnamente rovesciati. E il primo conflitto mondiale? Una sporca aggressione.
C’è poco da meravigliarsi, allora, se più di qualcosa non torna nei rapporti tra l’Austria del Wunderwuzzi (bambino prodigio) e l’Italia gialloverde. A 32 anni, il capo di governo più elegante e imbrillantinato del pianeta è un talento precoce. Figlio di un ingegnere e di un’insegnante, puro prodotto della Vienna bene, ragazzone senza vizi e cattolico di tiepida fede, da adolescente piombò in politica nei ranghi della «balena bianca» austriaca. A 20 anni e poco più (un Giggino Di Maio dei climi freddi) mollò giurisprudenza e, senza mai imbrigliarsi nella fatica di un lavoro vero, fu prestissimo acclamato leader del movimento giovanile dell’Övp, i popolari d’Oltralpe ingessati nella Grosse Koalition, al rimorchio di Berlino. Al suo fianco, l’eterna fidanzata Susanne. Solida famiglia borghese, impiego non banale al ministero delle Finanze, tuttora attende che il suo principe azzurro, tra un congresso e una visita di Stato, la impalmi.
Mai stato però un bamboccione
timido e retrò. Il primo cimento elettorale, che a 27 anni lo innalzò al soglio di deputato (poi sottosegretario agli Interni, quindi ministro degli Esteri), lo condusse su uno sfacciato Suv nero, con procaci fanciulle che distribuivano preservativi neri, intonando lo slogan «Nero fa figo e farà figa anche Vienna» (nero era il colore del suo partito, rimpiazzato da un accattivante turchese quando ne prese il timone). Nell’ottobre 2017, l’incoronazione al cancellierato, grazie all’alleanza con l’estrema destra dell’Fpö e al benservito ai socialisti.
Legittimato dal consenso, si mise immediatamente ad applicare i cardini del suo programma d’assalto: sovranismo über alles, coniugato con il tradizionale neutralismo viennese, dando un bel calcione al vecchio conservatorismo senza sussulti. Chiusa (in barba a Frau Merkel) la rotta balcanica dei migranti dalla Turchia, ribadì la propensione a sbarrare i confini meridionali, rifiutando di condividere il peso che grava sui Paesi di primo approdo dei migranti. E poi i respingimenti della Polizei alla frontiera del Brennero, ma anche il maldestro tentativo di costringere Lampedusa a tenersi gli immigrati dall’Africa trasformandola in un hotspot. Diventato presidente di turno dell’Ue, coordinò la pilatesca regia del flop di Salisburgo (che avrebbe dovuto riformare le stantie regole di Dublino sui rifugiati). Infine, la testarda pretesa del doppio passaporto ai sudtirolesi. È impegnatissimo a enfatizzare il ruolo di mediatore tra Bruxelles e i quattro di Visegrad più l’Italia, con un occhio a Vladimir Putin. Ma a Emmanuel Macron, europeista convinto, assicura anguillesco che non vuole essere confuso con Viktor Orbán o Salvini.
Il doppio gioco affiora nel caso della contestata manovra «flessibile» di Roma. A dare fuoco alle polveri, la presidenza austriaca di Ecofin, che ammonisce al rispetto delle regole della «grande famiglia Europa». Poi baby Kurz in persona (diventato più rigorista di Jean-Claude Juncker) afferra l’ Italia per la collottola, bollandola come «mina vagante». E confida ai suoi: «Sì, la sintonia con Salvini c’è... Almeno finché non diventerà troppo ingombrante».