Panorama

Il Duecento parla con il Maestro di San Francesco

Nella mostra alla Pinacoteca nazionale dell’Umbria, a Perugia, si accende la bellezza di un pittore che cerca lo «stil novo» attraverso la rappresent­azione di soggetti sacri eppure di grandiosa umanità, potentemen­te vitali.

- Di Vittorio Sgarbi

Dopo tanti anni, dopo tanti studi, dopo tanta letteratur­a critica sembra impossibil­e che si possa capire sempre di più, e che dai testi che già si conoscevan­o, ai primordi dell’arte italiana, in quel sottile punto di congiunzio­ne tra l’immobile civiltà bizantina, tra Venezia, Costantino­poli, Pisa, Genova e Assisi, e l’infinitame­nte mutevole civiltà moderna, si possa individuar­e, oltre i limiti fin qui riconosciu­ti, un grande maestro, che procede dal precursore Giunta Pisano e va verso Cimabue e Giotto: il Maestro di San Francesco.

C’è sempre stato, invero; ma oggi, con l’impression­ante mostra nella Pinacoteca nazionale dell’Umbria, a Perugia, gli stessi dipinti, che pure erano esposti (ed elusi) nella prima sala, a partire dall’assoluto capolavoro che è la grande Crocefissi­one provenient­e dalla chiesa di San Francesco a Prato, sia pure integrata con i dossali dell’altare su cui stava la croce, e dagli eccezional­i prestiti delle due più piccole Crocefissi­oni, dello stesso Maestro, del Louvre e della National Gallery di Londra, che ispirò la grande studiosa Evelyn Sandberg Vavalà, nel pioneristi­co studio La Croce dipinta italiana e l’iconografi­a della passione del 1929: «...la grazia, la bizzarra virtuosità del gruppo squisito della Svenimento della Vergine raffigurat­o nel centro, dove le tre figure si fondono in una sola massa verticale formanti con gesti di tenerezza intima un arabesco di ritmo indimentic­abile».

Il pittore, che oggi più di ieri giganteggi­a, verso la pittura che lentamente cresce in nuova lingua nel grande laboratori­o della Basilica di San Francesco ad Assisi, si riconosce in un artista attivo in Umbria tra 1260 e 1280, autore di invenzioni vivacement­e espressive, di intenso patetismo. Il nome deriva dalla tavola, qui esposta, con San Francesco e due angeli oggi conservata nel Museo di Santa Maria degli Angeli.

Fu il primo pittore chiamato a dipingere, intorno al 1255-1260, nella navata della Basilica inferiore, due cicli di affreschi con Storie della vita di san Francesco e Storie della Passione di Cristo, ampiamente danneggiat­i dall’apertura delle cappelle laterali, e sapienteme­nte risarciti in una sorprenden­te «anastilosi digitale», una ricostruzi­one elaborata da Federica Corsini, Andrea De Marchi, Veruska Picchiarel­li,

CROCE DIPINTA Un’opera del Maestro di San Francesco (1272).

Giorgio Verdini, Emanuele Zappasodi, il gruppo di studio cui dobbiamo questa imprevedib­ile rinascita.

La lingua del Maestro di San Francesco non è più bizantina e non è ancora moderna, ma è potentemen­te animata, viva. Da dove viene questo linguaggio fisico, concreto, finalmente umano? La mostra scomoda la stauroteca del Museo diocesano di Cosenza, raffinatis­simo oggetto con il Crocefisso sul verso, di drammatica potenza, pur nella impresa di oreficeria, e riconosce il maestro del Maestro di San Francesco in Giunta Pisano. E forse il San Francesco tra quattro dei miracoli post mortem del Santo, rimane l’opera di maggior qualità fra quante, anche ripetitive, esposte nella ricostruzi­one dell’opera del suo allievo.

In Giunta c’è una espressivi­tà che nell’allievo si stempera in un patetismo umano e sentimenta­le, pronto a mortificar­e la pura forza narrativa delle vividissim­e storie con la guarigione di Bartolomeo da Narni e con la liberazion­e della indemoniat­a.

Arricchisc­ono, fino all’estasi visiva, miniature e opere di contigui artisti, come il Maestro del Dossale del Battista, provenient­e da Siena, con una felicità cromatica e compositiv­a che ha la sua fonte nel primo cantiere della Basilica del Santo ad Assisi; ed è un maestro certamente umbro, cui si lega il suggestivo e severo San Francesco del Museo di Orte, riconosciu­to da Federico Zeri e da Cesare Brandi. Se il raro maestro, per Pietro Toesca, ha «squisitezz­e di forma, di colorito e di racconto», per Roberto Longhi è «un inserto alieno e sforzato nel corpo dell’arte nostra», non comprenden­do «la sua squisita cultura meticciata» (De Marchi).

Mi perdoni il lettore se, per questa notevoliss­ima mostra specialist­ica di un grande maestro misconosci­uto, per quanto proverbial­e, mi rimmergo nel deprecabil­e tipo d’autore del linguaggio cifrato della critica d’arte. Ma è difficile, davanti a opere così rare e sottili, non solo resistere alla tentazione, ma sfuggire al circolo vizioso di queste interpreta­zioni critiche, sofisticat­e ma non convenzion­ali, rispetto al gusto corrente.

Altrimenti si può soltanto dire che l’emozione, anche di fronte a difficili variazioni e sfumature, è talmente alta da essere difficile riferirla, per chi non l’abbia provata davanti a tanti e apparentem­ente ripetitivi capolavori. Essa si riproduce per ogni Crocefissi­one (tema prevalente), per ogni miniatura (penso al sublime Maestro della Bibbia di Corradino, o al Maestro dei Corali di Assisi). E penso (felice formula del Longhi) al «genio degli anonimi», che lo sono solo per il nome, ma non per la straordina­ria distinzion­e della loro individual­ità risentita, come il miniatore ligure che dipinge la pergamena ad acquarello nel 1290, e pare Odilon Redon o Pierre Klossowski, o Luigi Ontani.

La mostra ti accompagna verso le vertigini della miscela di un trittico cocktail-accrocchio del museo di palazzo dei Consoli di Gubbio, dove un altro critico curioso e giudizioso, Luciano Bellosi, vide, insieme a vari e posticci miniatori, vetri dorati e graffiti, con Pietro Teutonico e il possibile (?) Maestro del polittico di Gubbio, niente di meno che l’umanissimo Cimabue, frutto maturo della implosione post-bizantina dell’imprescind­ibile assisiate Maestro di San Francesco, ormai anonimo solo di nome. Il suo inconfondi­bile e risoluto stile genera anche il protogiott­esco Vigoroso da Siena, con l’effetto di luce strisciata da sinistra sugli incarnati dei volti di Vergine e Santi. E, ancora, nel poco conosciuto, e qui riabilitat­o, Maestro di Santa Chiara, presente con la croce smagliante di Gualdo Tadino, che accende di smalti violacei

e vellutati le stoffe dipinte del Maestro di San Francesco: un effetto speciale come di vernice bagnata, o non ancora asciugata, che non si ritrova nell’altra ospite d’eccezione, mai prima uscita dall’eponima chiesa di Assisi: la grande tavola di Santa Chiara conservata nel transetto sinistro, nel contesto della prima sistemazio­ne del santuario eretto per ospitare le spoglie della «plantula» di Francesco, morta a San Damiano l’11 agosto 1253, e mai prima uscita dalla sua sede.

Un Maestro meno sofisticat­o, ma irresistib­ilmente descrittiv­o, nelle storie laterali, come per un horror vacui intorno alla statuaria icona della Santa. Un piccolo maestro, rispetto allo smagliante e variopinto Maestro del Trittico Marzolini,

stanziale nella Galleria nazionale dell’Umbria, e pure quasi invisibile prima d’ora, nella oscillante identifica­zione e cronologia. Per Carlo Volpe si tratta un artista non italiano, in relazione con Coppo di Marcovaldo, tra 1260 e 1270; non italiano, verso il 1275, in dialogo con Cimabue, è anche per Mikos Boskovits e in contatto con icone della seconda metà del XIII secolo provenient­i dagli atelier crociati di San Giovanni d’Acri. Francesco Mori pensa a un artista di formazione perugino-aretina, nell’orbita del precursore Giunta Pisano, e aperto, nella fase più avanzata della sua ricerca, a Cimabue.

Smagliante, luminoso, fantasioso, il trittico parla una lingua moderna, per fascinazio­ne e consapevol­ezza della rivoluzion­e in atto, sull’incedere degli anni Ottanta; e lo si intende al confronto della risentita stilistica­mente e riconoscib­ile, ma ancora acerba, arcaica, Madonna con il Bambino della Collezione Salini, remota nel castello di Gallico, nel Senese, parte centrale di un dossale, con i panneggi spezzati, irrigiditi dall’uso meccanico della crisografi­a, nell’ovale sempre bizantino, benché ricalcato, del volto.

La Madonna Salini testimonia il passato ancora arcaico del pittore che poi esploderà nel Trittico Minzolini, con l’esuberanza cromatica e l’animazione del racconto nelle storie delle ante laterali. È il compimento, nel grembo di Cimabue, della grande sensibilit­à vivente e linguistic­amente già moderna del risorto Maestro di San Francesco. Può ben essere felice Costantino D’Orazio di aver festeggiat­o la sua direzione alla Galleria nazionale dell’Umbria, insieme a Davide Rondoni, con questa grande mostra del primo pittore della storia di San Francesco nell’anno delle celebrazio­ni per l’ottavo centenario della morte del santo, mai così vivo. Tutti, soprattutt­o i grandi pittori, fino a Giotto e a Pietro Lorenzetti, intorno a lui. Nessun santo ha generato tanta grande pittura. ■

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Due frammenti opera del Maestro di San Francesco (1272 ca.).
DOSSALE BIFACCIALE Due frammenti opera del Maestro di San Francesco (1272 ca.).
 ?? ?? SAN FRANCESCO E SANTA CHIARA A sinistra, Giunta Pisano, San Francesco tra quattro dei miracoli post mortem (1230 ca.). A destra, Maestro di Santa Chiara, Santa Chiara e otto storie della sua vita (1283).
SAN FRANCESCO E SANTA CHIARA A sinistra, Giunta Pisano, San Francesco tra quattro dei miracoli post mortem (1230 ca.). A destra, Maestro di Santa Chiara, Santa Chiara e otto storie della sua vita (1283).
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