Una comoda indignazione sull’ucraina invasa
Gent.mo Direttore, leggo il Suo editoriale sul n.13 di Panorama (27 marzo 2024) sull’attuale situazione dell’ucraina e rifletto. Rifletto sul fatto che il 24 febbraio del 2022, quando Putin diede inizio alla «operazione militare speciale» ai danni del Paese confinante, molti di noi si indignarono: al presidente russo non si doveva permettere a nessun costo che, dopo la Crimea, occupasse anche Lugansk e Donetsk!
La risposta delle democrazie occidentali sarebbe stata tale da far fallire non solo le mire imperialistiche del padrone del Cremlino ma la Russia intera!
Ci siamo sbagliati. Abbiamo compreso, in questi due anni, che mettere in pratica certi principi è attività impegnativa e costosa e noi, popoli occidentali e democratici, riteniamo più opportuno fare le manifestazioni a sostegno e poi farci il weekend piuttosto che impegnarci a favore degli sconosciuti ucraini.
Ma siccome abbiamo sempre bisogno di un alibi, sosteniamo che questo aiuto agli ucraini non ha portato a nulla, mentre l’interruzione degli aiuti e la conseguente resa dei combattenti, perchè di questo si tratta, eviterà altre carneficine e, magari, ci solleverà da impegni, consentendoci di pensare meglio ai nostri weekend.
Speriamo solo che l’«ottimo» Putin non capisca che può ripetere il giochetto e rifarsi la sua Urss.
Nino Di Carlo
Contro il salario minimo
Gentile direttore, da convinto liberale sono contrario a misure del tipo «salario minimo». Ritengo che il sistema migliore per aumentare gli stipendi sia creare nuovo lavoro; cioè ribaltare l’equilibrio domanda/offerta di lavoro. Se un lavoratore può scegliere deciderà lui se accettare tali trattamenti o scegliere altrimenti.
Altro fattore è che, più un lavoratore possiede qualifiche appetibili, tanto maggiore è il suo potere contrattuale. In Italia manca un serio programma di preparazione/aggiornamento professionale. Eccedono le carenze d’istruzione o, peggio, cicli di studio ben poco spendibili; poi può anche accadere che un laureato in storia (Roberto Gualtieri) possa diventare ministro del Tesoro (fra superesperti economici europei), o anche sindaco di Roma; di solito certe tipologie di studio danno limitate possibilità d’impiego.
Ha detto bene il ministro Valditara: bisogna puntare sull’istruzione tecnica e professionale, nel senso di incrementarne gli studenti e aggiornarla e migliorarne l’efficienza; anche in collaborazione con le imprese. Oggi il 77 per cento delle imprese italiane ha difficoltà a reperire figure professionali adeguate, le quali hanno sempre più ampie possibilità di scelta.
Nel 2021 ben 40 milioni di americani hanno volontariamente cambiato e migliorato lavoro; nello stesso anno in Italia, due milioni di lavoratori hanno scelto un nuovo impiego per analoghi motivi. Ormai uno dei maggiori problemi di un’azienda, oltre a trovare personale preparato, è quello di mantenere il proprio ed evitare che se ne vada. Quindi puntare tutto sul salario, è fuori dal tempo; bisogna invece puntare su più lavoro.
Email firmata
Il suo canto libero
L’articolo della rubrica Ipse Twixit intitolato «E Pupov canta per lo Zar» (Panorama n. 14, del 27 marzo 2024) recita questo testo: «Partire alla volta di Mosca, dove, durante le recenti elezioni, ha tenuto un concertone al Teatro del Cremlino. Sul palco di Madre Russia, davanti allo zar Putin». Come management e ufficio stampa di Pupo vi sottolineiamo che il fatto che Pupo abbia cantato davanti Putin o per Putin è completamente falso e vi chiediamo rettifica. Umberto Chiaramonte
Risponde Terry Marocco. Pupo ha cantato a Mosca al teatro del Cremlino e questo lo sanno tutti. Possiamo pensare che abbia cantato senza che Putin lo sapesse o lo volesse? Ricordiamo che il concerto di Pupo è stato cancellato in Bielorussia, pertanto non sono sagre di Paese ma eventi stabiliti e con un placet. Forse non c’era Putin? In ogni caso, scritto con gentilezza nell’ipse Twixit, auguriamo il meglio a Enzo Ghinazzi.
Pesto «stellato»
Nell’articolo Il Pesto e i suoi discepoli (Panorama n. 13 del 20 marzo 2024), a firma di Antonio Bozzo, mi permetto di segnalarvi un’inesattezza a proposito di Giorgio Servetto che l’articolo cita come «talentuoso chef ligure con due stelle Michelin, nel suo Vignamare di Andora, provincia di Savona».
In realtà Giorgio Servetto e il Vignamare di Andora di stelle non ne hanno due ma una sola, tra l’altro assegnata dagli ispettori della Guida per la prima volta nel 2024. L’equivoco, forse, sta nel fatto che la Michelin ha conferito al Vignamare di Andora oltre ad una stella rossa anche la stella verde che viene data a prescindere dalla qualità del cibo o del servizio ma soltanto per premiare la ricerca e l’applicazione dei principi Esg, ovvero quello ambientale, sociale e di governace, sulla sostenibilità che è così di moda in questo momento.
Massimo Germani
Risponde Antonio Bozzo. Per un taglio redazionale sul testo finale è stato scritto «due stelle». Le stelle del ristorante Vignamare sono sì due, ma precisamente una rossa e una verde. Ringraziamo lettori attenti come il sig. Germani che ci aiutano a essere precisi.
C’era una volta (e purtroppo c’è ancora) il
falso Parmigiano Reggiano in vendita in tutto il mondo, dagli Usa all’australia con le sue numerose declinazioni: parmesao, parmesano o regianito. C’erano una volta (e purtroppo ci sono ancora) il cambozola (gorgonzola al sapor di crauti), l’asiago del Wisconsin, la robiola di Roccaverano made in Canada, il Chianti doc dell’argentina, il salame calabrese prodotto in Canada e persino il tradizionale aceto balsamico di Modena venduto in Florida con il marchio White Balsamic Blush Vinegar, cioè autentico «aceto balsamico bianco al lampone rosato». Tutta roba che sta agli autentici prodotti italiani più o meno come la bigiotteria di una bancarella ai gioielli della regina. Ora la lista si allunga: abbiamo anche l’auto «Milano» che viene prodotta in Polonia. La Fiat l’ha annunciata così. Poi sono scoppiate le polemiche e ha cambiato nome. Ma senza riuscire a allontanare i sospetti del tentativo di inganno. Italian sounding allo stato puro.
Si parla molto in queste ultime settimane degli eredi Agnelli e del futuro della loro Stellantis in Italia. Ci sono stati scioperi, comunicati, lettere agli azionisti, proteste e polemiche a non finire. Ma forse si è riflettuto poco su questo aspetto, che invece non è sfuggito all’occhio attento del nume tutelare: noi stiamo perdendo un bene tradizionale dell’italia, un nostro patrimonio storico, quello dell’automobile. E lo stiamo perdendo perché, lo dico nel modo più chiaro possibile, abbiamo continuato a fare gli interessi non del nostro Paese ma di una famiglia, quella appunto degli Agnelli, che ha sempre usato lo Stato italiano come un taxi senza tassametro. Un taxi, per altro, che con l’ultimo viaggio li ha portati, ricchi e felici, all’estero.
Dal 1975 i contribuenti italiani hanno generosamente donato a questi signori 220 miliardi di euro. In cambio che cosa hanno ottenuto? Nel 1989 la Fiat produceva 1,9 milioni di auto in Italia oggi Stellantis arriva a malapena a 500 mila. I dipendenti erano 117 mila, oggi 43 mila. Hanno chiuso l’alfa di Arese, Termini Imerese, il pure futuro di Mirafiori è incerto tanto che nei giorni scorsi, dopo tanti anni, operai e quadri sono scesi in piazza, 12 mila persone in corteo per chiedere conto del disastro in corso. Ma, si badi bene, è un disastro «soltanto» (si fa per dire) industriale. È un disastro di beni prodotti e di posti di lavoro. Dal punto di vista finanziario, invece, va a gonfie vele. Mentre gli operai andavano in piazza a Torino, John Elkann annunciava utili per quattro miliardi di euro, con una cedola per la famiglia da oltre 50 milioni di euro.
Sull’ultimo numero del mensile Millennium Giorgio Airaudo ha ricordato come nel 2020 gli eredi Agnelli abbiano incassato sussidi per 6,3 miliardi di euro, tutti dalle tasche degli italiani. L’anno successivo con la nascita di Stellantis i soci hanno incassato 2,9 miliardi di euro. Tutti finiti nelle loro tasche private. Fabbriche vuote e tasche piene. O meglio: tasche vuote (di contribuenti e lavoratori) e tasche piene (dei giovani Agnelli). E chi garantisce il guadagno, è ovvio viene premiato: l’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, un giorno minaccia la chiusura degli impianti in Italia, l’altro incassa la sua giusta (si fa per dire) mercede: 36,5 milioni di euro lordi, con un aumento del 56 per cento rispetto all’ultimo anno. Si capisce, no? Quando la produzione cala, le fabbriche restano chiuse, c’è la cassa integrazione e gli operai scioperano, non vuoi dare un bel riconoscimento al manager che realizza tutto ciò?
Ora gli Elkann chiedono nuovi incentivi, come se non fossero bastati quelli che hanno ricevuto. E la cosa interessante, però, è che gli incentivi per le auto andrebbero nelle tasche di chi non è più concentrato sulla produzione di auto. Infatti l’ex Fiat non solo non è più italiana (è un gruppo francoolandese), ma ha anche la testa rivolta altrove: è stato lo stesso John, nipotino prediletto dell’avvocato, ad annunciare altri massicci investimenti (quattro miliardi) nella sanità privata, nuovo campo di interesse degli ex produttori di auto che non a caso qui in Italia comprano cliniche su cliniche. Pensateci, è un cortocircuito paradossale: lo Stato italiano non investe in sanità pubblica ma dà incentivi per produrre auto agli Agnelli che però non producono auto ma fanno affari sullo sfascio della sanità pubblica. Bingo.
In tutto questo, però, come si diceva non vanno a perdersi soltanto posti di lavoro (che pure non è poco): va a perdersi un nostro patrimonio. Un patrimonio italiano. Pensateci: la Fiat aveva l’italia nel suo nome (Fabbrica Italiana Automobili Torino). Si capisce: far sapere che le auto si producevano qui era un valore aggiunto. Siamo il Paese di Ferrari, Lamborghini, Alfa Romeo, Maserati... Abbiamo fatto la storia dei motori, ma adesso i motori si fermano. In Spagna ci sono sette case automobilistiche, in Francia e Germania sei. In Italia ce n’è una sola che però si concentra sulla sanità, chiude fabbriche in Italia, produce in Polonia e poi annuncia (prima di essere costretta al dietrofront) che l’auto prodotta in Polonia si chiamerà «Milano». A pensarci erano meglio il parmesan e il cambozola.
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ULTIMA FERMATA: «MILANO»