Guida All'ascolto
LATO A AQUALUNG Aqualung • 6’31”
L’album si apre con un graffiante riff di chitarra elettrica costruito su sei note, tutte in tonalità di SOL minore, tranne la quinta nota, un RE bemolle, che crea quindi una sensazione distonica e straniante, accentuata dal fatto che il primo riff è lasciato in sospeso, mentre il secondo anticipa l’entrata della batteria. Sulla terza ripetizione del riff si innesta la prima frase cantata (“Sitting on a park bench…” / “Seduto su una panchina del parco…”).
Su un tessuto ritmico e armonico essenzialmente rock, che si inerpica su una scala ascendente di accordi, sostenuti in particolare dalla chitarra elettrica, prende forma la cruda descrizione del clochard ritratto sulla copertina, senza tralasciare particolari ributtanti (“Snot running down his nose…” / “Il moccio gli colava giù per il naso”) o sordidi, come il fatto che il suo sguardo si soffermi sulle ragazzine (“Eying little girls with bad intent…” / “Adocchiando le ragazzine con cattive intenzioni…”), accennando così al tema della molestia sui minori che ritornerà in altri brani dell’album. Declamazione blues-hard rock diceva Thomas, e qui Ian Anderson sembra infatti urlare contro il barbone Aqualung tutto il disprezzo della società per i diversi, gli irregolari, i parassiti, che non si sono inseriti nel meccanismo sociale scuola-lavoro-famiglia, oppure, loro malgrado, ne sono usciti troppo presto, perdendo quel poco di dignità che si riconosce solo a chi è parte integrante del sistema. Ma ecco, all’improvviso, il mood del pezzo cambia, la chitarra elettrica, prima aggressiva e tagliente, cede il passo all’acustica, così come la derisione cede il passo alla compassione, mentre una voce che sembra uscita da un megafono o, meglio ancora, da una vecchia radio, descrive la triste e dolorosa condizione di quel povero “cristo”, fino ad arrivare persino a identificarsi con lui (“You poor old sod you see it’s only me…” / “Tu povero vecchio diavolo, lo vedi, sono solo io…”). Ancora una volta, però, il brano subisce un’improvvisa accelerazione ritmica trainata da tutto il gruppo: un giro di accordi in SOL minore, su cui viene riproposto il testo della parte precedente, ci conduce fino al leggendario assolo di chitarra di Martin Barre, uno dei più belli e riusciti dell’intera storia del rock, per poi di colpo ritornare alla parte triste e malinconica, che ci riavvicina empaticamente alla misera condizione del povero vagabondo (“Aqualung my friend…”). Purtroppo però nella società consumistica e ipertrofica moderna non c’è tempo per la pietà e la compassione: ecco che il camaleontico pezzo cambia di nuovo per ritornare al riff d’apertura e alla parte hard-rock declamata, in cui viene sostanzialmente ripetuta la condanna e la derisione del reietto (“Hey Aqualung!”). Alla fine nulla è sostanzialmente cambiato, nonostante per qualche minuto, tra situazioni musicalmente contrastanti e rimandi testuali, il nostro sguardo si sia posato su quell’uomo seduto sul marciapiede accanto a un cane, così come è ritratto nel retro di copertina, per il quale abbiamo provato, anche se solo per qualche attimo, un briciolo di compassione. In Italia Aqualung viene pubblicato come singolo, grazie anche al forte supporto della trasmissione radiofonica Per voi giovani, tanto che sulla copertina viene inserito un adesivo della stessa.
Cross-eyed Mary • 4’06”
Anche il secondo brano è ambientato nello stesso sporco e malfamato contesto urbano, presentandoci stavolta la figura di Mary “la strabica”, una giovane studentessa che il barbone Aqualung osserva da dietro la cancellata della scuola. Diventata adulta troppo presto, o suo malgrado, snobba i suoi coetanei (“gets no kicks from little boys…” / “Non se la fa con i ragazzini”) cui preferisce qualche pervertito adulto (“Would rather make it with a letching grey…” / “Piuttosto preferisce farsela con un viscido dai capelli ingrigiti”). La ragazza ha perciò imparato a prostituirsi per sua convenienza, anche se, pretendendo di essere pagata solo da chi può permetterselo (“She’s a rich man stealer…” / “È una ladra di ricchi” ) e concedendosi anche a chi non ha soldi (“She’ll do it for a song…” / “Lo farà per una canzone”), diventa una sorta di “Robin Hood di High Gate, che aiuta i poveri a tirare avanti”. Tutto il testo, così brutale e diretto, è ambientato nei quartieri della parte Nord di Londra, evidentemente ben noti ad Anderson; oltre a High Gate, infatti, viene menzionato anche Hampstead Village, dove Mary “pranza con una farinata d’avena in conto spesa”, ma prima di entrare a scuola, trova il tempo di subire un aborto illegale (“And the jack-knife barber, drops her off at school…” / “E il barbiere dal rasoio affilato l’accompagna a scuola…”). Musicalmente il brano è un hard rock massiccio e potente, in cui sono presenti tutti gli stilemi classici del genere che in quegli stessi anni erano stati codificati e imposti da band come Led Zeppelin e Deep Purple. L’introduzione del brano però, costruita su una cadenza di accordi che armonicamente si fanno via via sempre più misteriosi e inquietanti, magistralmente sostenuti dagli archi del Mellotron, e accentuati dai trilli del flauto, costituisce un marchio di fabbrica Jethro Tull talmente indelebile, che il brano diventerà uno dei cavalli di battaglia negli spettacoli dal vivo, da allora fino ai giorni nostri.
Cheap Day Return • 1’21”
Dopo i due brani iniziali, in cui la vena hard rock si è manifestata in tutta la sua graffiante potenza ed epicità, ecco che la componente lirica e introspettiva fa la sua prima apparizione in questo piccolo ma intenso gioiello di ispirazione autobiografica. Il protagonista (Ian Anderson stesso) si trova sulla banchina della stazione di Preston e sta aspettando il treno per tornare a Londra. Ha passato il pomeriggio dal padre malato e la preoccupazione per le sue condizioni di
salute, che sembrano volgere al peggio, prende il sopravvento nei suoi pensieri. L’infermiera tratterà il vecchio come dovrebbe? Gli ha preparato il tè e gli ha anche chiesto l’autografo perché lui è una celebrità (“She made you tea, asked for your autograph… What a laugh”). Il brano è quindi la storia di questo bre- ve e triste viaggio con “un biglietto economico di andata e ritorno”. Introdotto da un arpeggio di chitarra acustica, dopo i pochi versi cantati, in cui cogliamo un mirabile esempio di allitterazione interna (la “soft shoe shuffle dance” del piede che spegne la sigaretta roteandoci sopra con la punta della scarpa) il flusso di coscienza del protagonista cede il posto a un lugubre presagio di morte del vecchio padre, sottolineato da un accordo in tonalità minore, triste e minaccioso allo stesso tempo, che viene intona
to dagli ottoni dell’orchestra, diretta, come sempre, dal Maestro David Palmer. Ian Anderson stesso ha definito Cheap Day Return: “una canzone triste che passa come un soffio di vento”.
Mother Goose • 3’51”
Le nubi grigie, con le quali si chiude il brano precedente, vengono spazzate via da un allegro e solare arpeggio di chitarra acustica in RE in sospensione (cioè senza la terza dell’accordo che ne determina il grado maggiore o minore), su cui si disegna una melodia estremamente semplice, modulata in quinte dai flauti diritti, soprano e alto (suonati rispettivamente da Martin Barre e Jeffrey Hammond), che con la nota armonizzata di FA# offrono quella terza maggiore che mancava all’accordo di chitarra. Tutto questo ci proietta nella dimensione bucolica e pastorale del quarto bramentre no, ispirato, fin dal titolo, all’antologia di fiabe per bambini: I racconti di Mamma Oca (1695) dello scrittore francese Charles Perrault. In realtà, nel brano dei Jethro Tull, il protagonista della storia è un giovanotto che d’estate se ne va a zonzo alla fiera di Hampstead, dove incontra a turno vari personaggi (tra cui la stessa Mamma Oca), cui si diverte a rivelarsi sotto mentite spoglie: è uno scolaro (“A schoolboy”) per un centinaio di scolare che singhiozzano all’unisono nel fazzoletto (“A hundred schoolgirls sobbing into handkerchief as one”), poi è il pirata Long John Silver (quello de L’isola del tesoro di R.L. Stevenson) per un gruppo di ventiquattro cercatori d’oro (“Four and twenty labourers were labouring digging up their gold”); “non credo che sapessero chi fossi” (“I don’t believe they knew I was…”), “altrimenti mi avrebbero evitato”, sembra dire il protagonista. Gli incontri con uno studente straniero, che gli chiede se davvero ci siano elefanti e leoni a Piccadilly Circus, e con la donna barbuta, che lo invita a comportarsi bene se vuole evitare conseguenze spiacevoli, ci rimandano invece al mondo dei circhi e dei luna park, cui la canzone è fortemente ispirata; un mondo che sa essere tanto meraviglioso e misterioso per i bambini, quanto miserabile e squallido per gli adulti, cosa che ci riporta ai temi di questa prima facciata, ma in una chiave sicuramente più allegra e divertente, come ci suggerisce l’entrata in scena dell’allevatore di polli con la barba rossa che ha una “strana” sorella che porta il camion come un uomo (“Then the chickenfancier came to play, with his long red beard and his sister’s weird: she drives a lorry”). Nell’ultima parte del brano, poi, evidenziato da un accordo lungo di chitarra elettrica, ecco rivelarsi l’enigmatica figura di Johnny lo Spaventapasseri (Johnny Scarecrow), forse ancora il protagonista in uno dei suoi mirabili travestimenti, che ha rubato l’impermeabile nero come la pece (“jetblack mac”) a un pupazzo di neve, tutte figure simboliche che rimanderebbero, a conclusione di questo strampalato divertissement, addirittura all’eterna lotta tra il bene (“the snow man”) e il male (“Johnny Scarecrow”), tema che ritornerà, in toni simili, nell’album A PASSION PLAY del 1973, mentre la dimensione circense sarà invece riproposta nel successivo WARCHILD del 1974.
Wond’ring Aloud • 1’53’’
Un breve brano acustico autobiografico, stavolta ispirato alla vita di coppia. Il protagonista si risveglia al mattino accanto alla donna che ama; lei, “svolazzando” in cucina, prepara la colazione, lui ne sente gli odori (“As she floats in the kitchen, I taste the smell…”); poi lei torna da lui e sparge le briciole del toast sul letto, lui scuote la testa con un gesto che non denota impazienza e fastidio, ma complicità accompagnata da un sorriso (“Then she comes, spilling crumbs on the bed. And I shake my head”). Ed ecco che prendendo spunto da una semplice esperienza domestica, la riflessione contenuta nell’ultimo verso ci regala invece una grande lezione di vita: “È solo ciò che dai (cioè l’amore) a renderti quello che sei” (“It’s only the giving that makes you what you are”). Musicalmente Wond’ring Aloud è una ballata in 6/8 – ritmo tanto caro a Ian Ander
son perché connaturato alla musica po- polare della sua terra d’origine – in cui la splendida linea melodica della voce è magistralmente rifinita dal piano di John Evan e contrappuntata dagli archi dell’orchestra, arrangiati come sempre dal Maestro David Palmer.
Up To Me • 3’14’’
Se il brano precedente celebra il romanticismo delle piccole cose, Up To Me è, al contrario, la storia di un rapporto instabile e complicato, anche se poi lei (“the yellowed fingered smoky girl” / “la ragazza con le dita ingiallite dal fumo”) torna sempre da lui (“she’s running up to me” / “lei mi corre incontro”). Dopo la strana risata introduttiva (di Jeffrey Hammond Hammond), il brano si presenta come un blues atipico sin dal riff iniziale di chitarra in MI minore, che, con le sue sospensioni e ripartenze, in qualche modo ricorda quello della ti
«AQUALUNG è l’album dei Jethro Tull apprezzato in qualsiasi nazione» I a n A n d e r s o n
tle-track. Attraverso una ridda di strane percussioni, che vagano senza una meta nello spettro sonoro, veniamo introdotti nella dimensione piuttosto squallida di una relazione incostante, tra cinema e Wimpy Bar (una specie di fast food ante litteram), tra scenate e risse in un locale (il Cousin Jack’s), tra giochi di parole (“silver cloud” per Rolls Royce) che girano soprattutto intorno alle varie interpretazioni del titolo (“verso di me” ma anche “apparirmi” o “tocca a me”). Tutto questo non fa che confermare che l’intero brano non ha in realtà un significato particolare, ma che si tratta piuttosto di una specie di scherzo fatto ai danni dell’ascoltatore (per questo
forse viene aperto e chiuso da quella goffa risata), prima di introdurlo nelle atmosfere gotiche del secondo lato dell’album.
LATO B MY GOD My God • 7’08”
Per analizzare il brano che apre e dà il titolo al secondo lato dell’album, è necessario tornare a osservare attentamente il retro della copertina. Qui, in alto a destra, in caratteri gotici risalenti al XVIII secolo, è riportato una sorta di decalogo (in realtà sono nove principi) sul rapporto tra l’uomo e Dio:
All’inizio l’uomo creò Dio e lo fece a sua immagine e somiglianza.
E l’uomo diede a Dio una moltitudine di nomi, affinché potesse essere il Signore di tutta la Terra quando la cosa convenisse all’uomo.
E al settimo milionesimo giorno l’uomo si riposò e si appoggiò fortemente al suo Dio e vide che era cosa giusta. E l’uomo creò Aqualung dalla polvere della terra, e una moltitudine di altri della stessa specie.
E questi uomini inferiori l’uomo li ha gettati nel vuoto. Alcuni furono bruciati; altri furono messi in disparte dalla loro specie.
E l’uomo diventò il Dio che aveva creato e con i suoi miracoli governò su tutta la terra.
Ma come tutte queste cose passarono, lo Spirito che aveva spinto l’uomo a creare il suo Dio sopravvisse dentro ogni uomo: persino dentro Aqualung. E l’uomo non lo vide.
Ma per l’amor di Dio, farebbe meglio a iniziare a guardare.
Oltre all’ovvio sovvertimento delle parti, dove è l’uomo a creare Dio e non viceversa, come aveva già a suo tempo sostenuto il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach nella sua critica della religione, va notato che in questa strana cosmogonia, per nulla ironica ma anzi serissima, l’uomo (attraverso un’iniqua ridistribuzione della ricchezza) ha creato anche Aqualung e una schiera di uomini come lui, una sorta di razza inferiore, l’oppressione della quale gli permette di sentirsi potente come il Dio che ha creato. Ma esiste uno spirito (Santo?) originario e immanente che è sopravvissuto in ogni uomo, anche in quelli come Aqualung, ma l’uomo se ne è dimenticato, e adesso è arrivata l’ora che inizi a ricercarlo.
Quindi il soggetto di My God, così come di tutto il secondo lato, sembra essere l’arroganza dimostrata dall’uomo nel tentativo di domare e usare Dio, e più in generale la religione, per i propri scopi. Le liriche di Anderson si scagliano perciò non contro la religione tout court, ma contro le falsità e le ipocrisie della religione costituita, ridotta a uso e consumo di massa: “People what have you done? Locked him in his golden cage…” / “Gente, cosa avete fatto? Lo avee te rinchiuso nella sua gabbia dorata…”. Il brano inizia con una suggestiva introduzione di chitarra acustica, la cui semplice idea iniziale, un ostinato di LA ribattuti e separati da un’ottava, si sviluppa gradualmente, permettendo così ad Anderson di dimostrare tutta la sua bravura sullo strumento, che spesso maneggia con una maestria addirittura superiore a quella esibita al flauto. La requisitoria contro l’arroganza dell’uomo si manifesta attraverso parole sarcastiche, crude e dirette: “Made him bend to your religion, Him resurrected from the grave…” / “Lo avete piegato alla vostra religione, lui che è resuscitato dalla tomba…” e ancora: “He is the God of nothing if that’s all that you can see” / “Lui è il Dio di niente se questo è tutto quello che potete vedere”. La rabbia sinora controllata a stento nella parte arpeggiata, accompagnata solo dal pianoforte, esplode in tutta la sua veemenza dopo le parole: “So lean upon Him gently… And don’t call on Him to save…” / “Quindi appoggiati gentilmente a Lui… E non chiamarlo per salvarti…”. Da qui in avanti il testo si fa ancora più sferzante e caustico: “The bloody Church of England in chains of history, requests your heartly presence at vicarage for tea…” / “La dannata Chiesa d’inghilterra, incatenata dalla storia, richiede la vostra presenza terrena in canonica per un tè…” ancora: “And the graven image you-knowwho… With his plastic crucifix he’s got Him fixed…” / “E l’immagine scolpita sulla tomba di tu-sai-chi… Con il suo crocifisso di plastica l’hanno inchiodato fisso…”. Dopo un break di due giri di accordi staccati, su cui si esalta la chitarra elettrica, ecco che il flauto prende energicamente il sopravvento e si lancia in un virtuosistico assolo, che d’ora in avanti diventerà un classico di ogni futuro concerto del gruppo. Dopo alcuni fraseggi, cui si aggiungono altre linee sovraincise di flauto, che sembrano come moltiplicate dall’effetto delay, ecco che il solo sfocia in un coro polifonico dal sapore medievale, in cui è lo stesso Ian Anderson ad aver sovrainciso tutte le voci (anche se il cambio armonico da RE minore a SOL minore rimanda in realtà a un tipico schema blues). Uno stacco di batteria chiama il rientro di tutto il gruppo – un arrangiamento chiaramente già concepito durante e per le esibizioni live – ed eccoci tornare all’arpeggio iniziale, in una struttura circolare che ricorda molto da vicino quella del brano Aqualung e che sembra suggerirci che non esiste una ri
sposta definitiva ai mali causati da una società egoista e da una religione mistificata.
Hymn 43 • 3’14’’
Il canto degli inni tradizionali all’interno della celebrazione religiosa è una caratteristica tipica del culto anglicano; essi sono inseriti e numerati all’interno di raccolte chiamate appunto “innari”, messi a disposizione dei fedeli tra i banchi della chiesa. Ogni volta che viene cele- brata una messa, su un cartello vengono esposti i numeri degli inni che verranno cantati durante la funzione religiosa. Perciò “Inno 43” è l’inno che i Jethro Tull cantano come secondo brano del secondo lato dedicato alla religione. Se il numero 43 può essere casuale e non contenere alcun riferimento particolare, il testo invece è senza ombra di dubbio un altro attacco alla religione organizzata, ai venditori di salvezza, agli ingannevoli imprigionatori di Cristo del brano precedente: “If Jesus saves, well
He’d better save Himself, from the gory glory seekers, who use His name in death…” / “Se Gesù salva, allora farebbe meglio a salvare Se stesso, dai sanguinari cercatori di gloria, che usano il Suo nome in morte…”. All’inizio del brano, anche il mondo consumistico senza scrupoli etici e morali è parimenti oggetto di invettiva: “Oh Father high in Heaven, Smile down upon your son, who’s busy with his money games, his woman and his gun…” / “O Padre nell’alto dei cieli, sorridi a tuo figlio quaggiù, che è indaffarato nei suoi giochi di soldi, con la sua donna e le sua pistola…”. Da notare che, a chiusura di ogni strofa, proprio come nei veri inni gospel, si ripete la frase: “Oh Jesus save me!” (“Oh Gesù salvami!”). Musicalmente parlando, si tratta di un brano hard-rock-blues, diretto e tagliente, costruito intorno a un energico riff di chitarra, cui rispondono a turno flauto, chitarra e pianoforte, alternando scale di accordi discendenti e battute suonate con la tecnica chitarristica dell’hacking, ottenuta trattenendo le corde sull’accordo, in modo da trasmettere come una sensazione di rabbia controllata. Il 30 giugno 1971 Hymn 43 viene pubblicato come singolo.
Slipstream • 1’13’’
Ancora una volta, la denuncia rock cede il passo al lirismo folk introspettivo nel brano più corto dell’album; posto in una posizione speculare a Cheap Day Return, ne tratta infatti lo stesso tema: quello della morte. Il titolo può essere tradotto con “scia” e sembra riflettere l’atteggiamento di chi si abbandona sulla scia delle cose, cioè che si lascia andare. Ma verso dove? Il riferimento al cameriere di Dio (il prete?) che presenta il conto, ci fa pensare appunto al tema della morte: “And you press on God’s waiter your last dime as he hands you the bill” / “E tu dai il tuo ultimo centesimo di mancia al cameriere di Dio e lui ti presenta il conto”, così come l’ultimo poetico verso in cui ci si abbandona alla corrente, quasi smettendo di remare per uscire fuori dai problemi: “And
you spin in the slipstream, tideless… unreasoning, paddle right out of the mess…” / “E tu ruoti nella scia, senza corrente… senza ragione, cerchi di remare per uscire fuori dai problemi…”. La struttura è molto semplice: ci sono due chitarre acustiche, una accompagna arpeggiando e l’altra rifinisce la melodia del cantato, su cui, dalla seconda strofa, si innestano anche gli archi dell’orchestra, che sul finale dirottano il brano su una nota glissata che rappresenterebbe la corrente dell’acqua, la quale, anziché prendere una direzione precisa, sembra girare a vuoto su se stessa, come in una specie di vortice di risucchio.
Locomotive Breath • 4’23’’
Una magistrale introduzione di John Evan al pianoforte, dal sapore squisitamente jazz (con l’accompagnamento dei bicordi di settima alla mano sinistra, a scendere gradualmente dal SI7 fino al FA#7 fino a chiudere in MI minore), si ritaglia uno spazio tutto suo nell’ambito di un album essenzialmente chitarristico e apre quello che forse è il brano più famoso e amato dei Jethro Tull: da questo momento in poi, anche se spesso inserito all’interno di qualche medley, Locomotive Breath chiuderà ogni esibizione dal vivo del gruppo fino ai giorni nostri. La sua struttura è estremamente semplice: una battuta di quattro accordi (MI minore – SOL – RE – MI minore) all’unisono con tutto il gruppo e un’altra sostenuta solo dall’hacking della chitarra: tanto basta per costruire un brano hard rock asciutto, potente e diretto, con un esplosivo assolo di flauto che ha fatto la storia. Il tema portante della canzone è il treno, anzi, più precisamente la locomotiva a vapore, il cui respiro del titolo indica lo sforzo, quasi animalesco, della propulsione, tanto più travagliato e sofferto, in quanto la locomotiva sembra essere fin dall’inizio totalmente fuori controllo: “In the shuffling madness of locomotive breath” / “Nella trascinante pazzia del respiro della locomotiva”). All’interno del testo (anche qui altamente simbolico e di non facile interpretazione) si muovono quattro personaggi principali: 1) “the all-time loser”, cioè “l’eterno perdente”, che potrebbe essere una delle tante incarnazioni del clochard Aqualung, oppure semplicemente un uomo sfortunato, che è stato abbandonato dai suoi figli: “he sees his children jumping off at the station one by one” / “ha visto i suoi figli saltare giù ad ogni stazione uno ad uno” ed è stato tradito dalla sua donna e dal suo migliore amico: “his woman and his best friend in bed and having fun” / “la sua donna e il suo migliore amico si stanno divertendo a letto”; 2) “the all-time winner”, cioè “l’eterno vincente”, l’alterego che “lo tiene per le palle” (“has got him by the balls”); 3) l’enigmatico vecchio Charlie, quello che nel ritornello ruba la manopola per riprendere il controllo del treno, non trovando però il modo di rallentare (“Old Charlie stole the handle and the train it won’t stop going, no way to slow down”); 4) infine Dio (“God He”) che sostituisce Charlie nel terzo ritornello, riconducendoci così al tema portante del
«AQUALUNG ci ha portato dalla dimensione dei teatri a quella delle arene» Ian Anderson
secondo lato, quello della religione. Il 30 marzo Locomotive Breath uscì come primo 45 giri tratto dall’album.
Wind Up • 6’01’’
Il brano che chiude il disco è una sorta di confessione, una rilettura del proprio
percorso e del difficile rapporto con gli ingannevoli ministri di Dio, con coloro cioè che pensano di rappresentarlo e di parlare in suo nome, ma che in realtà sono solo dei mistificatori: “I don’t believe you, you had the whole damn thing all wrong” / “Io non vi credo, non avete capito un accidente di niente”. L’inganno inizia fin da piccoli (“When I was young…”), sui banchi di scuola e alle lezioni di catechismo (“Sunday school”), dove l’educazione religiosa viene impartita, per così dire, “a orologeria”; da qui il significato del titolo Wind Up (caricare); ma Dio non è come un orologio o un ingranaggio a molla che si carica la domenica andando a messa: “He said: ‘ I’m not the kind you have to wind up on Sunday…’ / “Mi ha detto: ‘Io non sono il tipo che devi caricare alla domenica…’. Così il protagonista della sto
ria (lo stesso Anderson?) una mattina se n’è andato, portandosi il loro Dio sotto il braccio, i loro mezzi sorrisi ipocriti e il libro delle regole (“So I left there in the morning with their god tucked underneath my arm, their half-assed smiles and the book of rules”), ha cioè abbandonato la strada lastricata della religione organizzata, per cercare un rapporto più sincero e personale con Dio. Musicalmente il pezzo mantiene la struttura ad arco già ravvisabile in My God, cioè un inizio con il registro del pianissimo, dove una voce flebile è accompagnata solo dagli accordi di chitarra acustica, sulla quale poi si inserisce gradualmente il pianoforte e poi tutto il resto del gruppo, fino al break chitarristico che introduce il micidiale riff di chitarra della parte centrale, quella più marcatamente hard-rock, in cui, come in Aqualung e in altri brani epici degli anni a venire ( Minstrel In The Gallery o Heavy Horses), lo stesso testo viene ricantato con una melodia diversa e in un contesto più aggressivo, di denuncia e sfogo, per poi tornare, con un primo cambio di tempo in 3/4, alla melodia iniziale e poi concludersi così come era iniziato.