I Jethro TULL in ITALIA
Quando AQUALUNG non è ancora arrivato sugli scaffali dei negozi di dischi, la band di Ian Anderson si affaccia per la prima volta nel nostro Paese, creando scompiglio e tempesta…
IJethro Tuil suonarono per la prima volta in Italia al teatro Smeraldo di Milano, lunedì 1° febbraio 1971, a conclusione di una tournée iniziata il 7 gennaio in Danimarca e proseguita poi in Svezia, Norvegia, Austria e Germania. La serata di Milano è rimasta negli annali della cronaca perché la polizia dovette sgomberare 3000 persone rimaste fuori dal teatro che volevano entrare senza pagare il biglietto, dal momento che l’evento aveva registrato un sold out al botteghino con 5000 persone paganti. Tra il pubblico era presente anche Mauro Pagani, flautista e violinista della futura Premiata Forneria Marconi, il quale, rimasto folgorato dall’esibizione, proporrà agli altri componenti del gruppo (che in quel periodo ancora si chiamava Krel) di inserire nella scaletta dei loro spettacoli le cover di Nothing Is Easy, My God e Bourée.
La formazione dei Jethro Tull comprendeva: Ian Anderson: voce, flauto e chitarra acustica (Martin Guitar); Martin Barre: chitarra elettrica (Gibson Les Paul) John Evan: pianoforte e organo (Hammond); Jeffrey Hammond-hammond: basso (Fender Jazz Bass); Clive Bunker: batteria (Ludwig).
Come gruppo d’apertura si esibiva il duo folk irlandese Tír na nóg.
Il giorno dopo, martedì 2 febbraio, i Jethro Tull suonarono invece a Roma, al teatro Brancaccio di via Merulana, in due spettacoli entrambi sold out, uno pomeridiano alle 16, e l’altro serale alle 21, riproponendo la stessa identica scaletta di Milano. Raccontano i presenti che anche a Roma molti non riuscirono a procurarsi il biglietto, per cui, quando ci si rese conto che la spinta della folla, che già da qualche ora si era radunata fuori dal teatro, non era più contenibile, onde evitare il ripetersi dei tumulti milanesi della sera prima, furono aperte le porte di sicurezza laterali e una folla di giovani si precipitò dentro, sparpagliandosi nel buio che avvolgeva la sala. Nel teatro gremito, a luci spente e a sipario chiuso, ecco entrare Ian Anderson, il quale, dopo essersi seduto su uno sgabello, rivolgendosi alla folla, annunciò che il gruppo si era sciolto e che lui si sarebbe esibito da solo. La delusione iniziale dei presenti sembrò svanire non appena Anderson incominciò ad intonare alla chitarra acustica l’arpeggio iniziale di My God, brano ancora sconosciuto al pubblico, in quanto AQUALUNG, nel febbraio del 1971, non era
ancora stato pubblicato. A quel punto la gente pensò davvero che avrebbe assistito a una sorta di esibizione acustica del solo Ian Anderson (quello che oggi abbiamo imparato a chiamare concerto unplugged) e la cosa, in fondo, non sembrava poi tanto male, visto la grande voglia di vederlo all’opera; ma nel preciso istante in cui la canzone arrivò al verso: “And don’t call Him to save…”, le luci si accesero di colpo, il sipario si aprì e il resto dei componenti del gruppo, che nel frattempo avevano preso posizione agli strumenti, diedero tutti una “botta” all’unisono talmente potente da rimanere impressa per sempre nella memoria dei fortunati astanti. Nello stesso momento Ian Anderson si liberò dello sgabello con un calcio e si avventò come un animale (da palco) sul microfono, brandendo nella mano destra l’argenteo flauto traverso, come se fosse una specie di spada o di bastone da druido, o, meglio ancora, una bacchetta magica, con la quale incantare il pubblico, tenendolo incollato alle poltrone. Il concerto poi continuò, sia con i brani già noti ai presenti, tratti da STAND
UP e BENEFIT, che con i brani ancora inediti di AQUALUNG, più altre performance tipiche dei concerti dal vivo degli anni Settanta, come l’assolo di flauto (in My God, incluso un breve accenno a Bourée), di piano (la By Kind Permission Of di Evan), di batteria (all’interno di Cross-eyed Mary) di chitarra elettrica (tra Wind Up e Locomotive Breath), il tutto sapientemente studiato per sviluppare l’intera esibizione in un crescendo continuo, dall’inizio in sordina fino al finale pirotecnico, passando attraverso le acrobazie, non solo strumentali, dell’istrionico leader, che si impose da subito come il centro focale dello spettacolo, grazie alla sua incredibile presenza scenica a metà strada tra la figura di un clochard e un menestrello medievale. Il concerto si concluse con tutto il pubblico in piedi, assiepato sotto il palco, in un delirio da stadio. Molti tra loro erano ragazzi molto giovani, magari un po’ ingenui, ma sicuramente molto appassionati, forse già consapevoli di vivere la loro giovinezza in un momento storico magico e irripetibile, quando la musica era soprattutto fatta di condivisione: non solo quando, carichi di entusiasmo, assistevano agli spettacoli dal vivo, all’inizio a centinaia, poi, dopo l’apertura degli stadi ai concerti rock, a decine di migliaia, ma anche semplicemente nelle loro case, tra amici, ad ascoltare insieme, per la prima volta, quei dischi che magari avevano comprato facendo la colletta, cercandoli e trovandoli, dapprima d’importazione dall’estero, poi, grazie soprattutto alle prime ristampe italiane della Ricordi, nei nascenti negozi di fiducia, che incominciavano a proliferare in ogni dove. Un’ultima curiosità: durante il soggiorno romano, i Jethro Tull ebbero l’occasione di partecipare alla prima puntata della trasmissione musicale Milledischi, condotta da Mariolina Cannuli e andata in onda venerdì 5 febbraio 1971. A oggi il filmato non è mai stato pubblicato e non è neanche disponibile sul web, sempre che sia ancora custodito nelle teche della RAI.