The Gates of Delirium
*alcune parti dell’articolo sono tratte dal libro Yes. Gli anni d’oro (1969/1980) in uscita il 24 febbraio per Tsunami Edizioni.
Tra tutte le band storiche della scena Prog Rock degli anni Settanta, gli Yes sono indubbiamente quella che ha abbracciato più frequentemente nella sua produzione la forma-suite. Non solo, potremmo affermare che sono stati talmente bravi da riuscire a ottenere il massimo già al primo tentativo, grazie alla celeberrima (e straordinaria) Close To The Edge. Ovviamente non si trattava di un fulmine a ciel sereno, ma del frutto di un percorso di avvicinamento che era iniziato praticamente nel momento stesso in cui era nato il gruppo. Basta ascoltare brani come Survival (dal primo omonimo YES, 1969) o The Prophet (dal successivo TIME AND A WORD, 1970) per capire come la band si fosse messa fin da subito alla ricerca del modo migliore per espandere il classico formato canzone e trasformarlo in un contenitore in grado di accogliere e legare tra loro temi e idee differenti. Come sappiamo, a spingere in questa direzione fu principalmente Jon Anderson: cantante, compositore e conclamato “direttore di quel grande circo che erano gli Yes”, come ebbe modo di affermare all’epoca Peter Banks, compianto primo chitarrista del gruppo. Del resto, Anderson era probabilmente l’unico all’interno della band a poter vantare una reale e sincera passione per la musica classica: dalle casse del suo impianto stereo, posizionate strategicamente ai piedi del suo letto, usciva musica classica a tutte le ore. “Jon ascoltava i suoi dischi di musica classica e poi ci spronava a prendere spunto e ad adottare soluzioni impossibili”, ricorda il batterista Bill Bruford.
Fu ovviamente Anderson nel 1974 a concepire la sesta suite pubblicata dalla band, la stupefacente The Gates Of Delirium, che con i suoi 21’55’’ è di fatto il brano più lungo dell’era vinilica degli Yes, superando di una manciata di secondi Ritual (da TALES FROM TOPOGRAPHIC OCEANS, 1973). Il cantante era infatti rimasto colpito e affascinato dalla lettura di Guerra e pace, romanzo di Lev Tolstoj, anche se secondo Patrick Moraz, da poco entrato a far parte degli Yes al posto di Rick Wakeman, perlomeno l’ispirazione per il titolo della suite è da ricercare nel fumetto di fantascienza Delirius di Philippe Druillet, che il tastierista stava leggendo proprio all’epoca delle prime prove con la band. In ogni caso, Jon buttò giù praticamente tutto il brano al pianoforte e, seppure in maniera molto grezza e approssimativa, lo sottopose al resto del gruppo. “Avevo in mente una sezione iniziale che doveva evolversi attraverso delle esplosioni sonore”, ricorda Anderson. “E convogliare una grande energia nella sequenza che si svolge sul campo di battaglia. Poi alla fine della battaglia avremmo cantato una canzone”.
Il modus operandi in sala di incisione è quello ormai consueto per gli Yes. La composizione è divisa in sezioni: una volta affinata una singola porzione di suite, la band procede con la sua registrazione, mentre Anderson cerca di dare una forma compiuta alla sezione successiva, in modo da essere sempre in anticipo rispetto al resto del gruppo e tenere
sotto controllo la struttura globale. “The Gates Of Delirium è stata pensata e concepita da Jon”, ha confermato il chitarrista Steve Howe. “Per lui si trattava di un mezzo per far emergere l’espressività della band. Ad esempio, abbiamo preso alcuni dei suoi spunti musicali e li abbiamo trasformati in una ouverture. È quello che si chiama ‘interplay’, è la chiave della riuscita di ogni progetto di gruppo: Jon aveva concepito The Gates Of Delirium dal nulla e gli aveva conferito una struttura di partenza, su cui noi abbiamo lavorato per renderla sempre più ricca, seguendo le sue indicazioni. Si è trattato senza dubbio del momento in cui è riuscito meglio a guidare la band verso il raggiungimento dell’obiettivo che aveva in mente”.
Al contrario delle loro precedenti suite, stavolta non ci sono introduzioni e sonorizzazioni ambientali che ci consentano di acclimatarci, ma al cadere della puntina sul vinile siamo proiettati subito al centro dell’azione: come scrive Bill Martin nel suo saggio Music of Yes (1996), il fermento sonoro rimanda idealmente all’immagine di un piccolo villaggio in piena attività. Con la comparsa del cantato (da 2’11’’) ha inizio il percorso che porterà alla vorticosa sezione centrale del brano (da 8’02’’) catapultandoci sul campo di battaglia, dove il clangore delle armi e delle armature diventerà via via sempre più assordante. “In quel periodo ci piaceva molto sperimentare a livello timbrico, cercare suoni inediti e ori
«The Gates Of Delirium è uno dei motivi per cui facevo parte degli Yes: non volevo essere una pop star, ma creare della musica di cui si sarebbe continuato a parlare anche dopo 40 o 50 anni» Jon Anderson
ginali”, ricorda il batterista Alan Whi- te. “Spesso lungo la strada che da Londra conduceva alla villa di Chris Squire, dove stavamo registrando l’album, ci fermavamo da uno sfasciacarrozze e provavamo a percuotere degli scarti per vedere che tipo di suono potevano produrre. C’erano molle, pezzi di ferro, dischi dei freni o della frizione… passavamo lì un’ora ogni mattina e se trovavamo qualcosa che ci piaceva, lo compravamo e lo portavamo in studio con noi, dove lo appendevamo su una struttura che avevamo realizzato appositamente. I suoni metallici che si sentono durante la battaglia di The Gates Of Delirium sono stati prodotti percuotendo le cose che avevamo recuperato”.
La suite che apre RELAYER ha un taglio fortemente cinematografico, in cui le varie sezioni musicali fungono da ideale colonna sonora per gli eventi immaginati da Anderson. Come spiegherà lo stesso cantante in un’intervista alla rivista «Circus Magazine» nel 1976, “pur essendo una canzone sulla guerra, il suo obiettivo non era quello di denunciare gli orrori della guerra ma solo di descriverla da un punto di vista puramente emotivo: c’è un preludio, uno scontro, un tema che celebra la vittoria, e poi finalmente la pace e la speranza per il futuro”. Ma la pace e la speranza di cui Anderson canta nella parte finale del brano (Soon Oh soon the light / Pass within and soothe this endless night – Presto, oh presto la luce / Filtrerà e ci darà conforto in questa notte infinita) si possono manifestare solo con la consapevolezza di ciò che è avvenuto e delle sue terribili conseguenze. Per questo motivo potremmo definire Soon come un vero e proprio inno alla guarigione, che però non ha niente di religioso o di divino: non si tratta di un’invocazione rivolta a un qualche dio affinché possa sanare le ferite dell’umanità e riportare l’armonia sulla terra. Soon rappresenta piuttosto la presa di coscienza di ciò che è appena avvenuto e del fatto che non si può più tornare indietro. Ma anche che si può in qualche modo ripartire.
È proprio nel delicato passaggio tra la fine della sequenza della battaglia e l’inizio della rinascita (dal minuto 15’00’’ a 16’06’’) che possiamo apprezzare uno dei momenti più alti a livello compositivo nell’intera discografia degli Yes: l’approdo a quella che è di fatto una canzone a sé stante non è realizzato tramite una cesura o un artificio tecnico in studio, ma attraverso una vera e propria, lentissima, modulazione di accordi carica di solitudine e desolazione, che riprende la lezione di compositori contemporanei come Olivier Messiaen (1908-1992) e György Sándor Ligeti (1923-2006). Probabilmente un’intuizione di Patrick Moraz, subentrato a pieno titolo a Wakeman nel ruolo di arrangiatore e tessitore delle trame sonore del gruppo. E un’altra serie di lente modulazioni sono presenti proprio in chiusura di suite, dopo l’assolo di chitarra (da 21’22’’), fino ad approdare, attraverso una sequenza di nove accordi, al Do maggiore finale e carico di speranza.