Tubular Bells
“La gente spesso mi chiede perché ho scritto Tubular Bells, ma io non so perché. Non l’ho fatto per un motivo” (Mike Oldfield, 2014). Egocentrico, riluttante alla comunicazione, serioso. Uno che deve suonare tutti gli strumenti possibili per sentirsi realizzato, sazio della propria opera. Uno dalla faccia con l’espressione eternamente corrucciata, una sorta di José Mourinho della chitarra, uno che, quando accenna un sorriso, contemporaneamente, non riesce a fare a meno di aggrottare le ciglia e il sorriso diviene un ghigno, una sorta di espressione sprezzante e volitiva. Lui dev’essere uno stronzo. Ammettetelo: siete stati in molti a pensarlo. La realtà è altrove, come spesso succede quando, al centro della discussione, si parla di un argomento futile come il circo del “rockanrolle”, luogo in cui a raccogliere i maggio- ri consensi sono i nani e le puttane. Provateci voi a uscire indenni da una realtà familiare, inizialmente idilliaca, divenuta un luogo di incubi e silenzio, con una madre perduta in una profonda depressione, con gli occhi rivolti perennemente a una finestra, avvolta dallo straniamento, dovuto alla perdita del bimbo che portava in grembo. Provateci voi a ritrovarvi diciassettenni e senza un lavoro, in una Londra che sembra offrire opportunità a chiunque, fuorché a voi. Provate ad addomesticare la personale sequela di disagi sperimentando L’LSD e a vedere stravolta la propria coscienza da una esperienza come quella, che risulterà ancor più foriera di mostri e notti insonni. E, infine, provateci voi, dopo questa ondata di sofferenze, a partorire una suite/album come Tubular Bells a vent’anni appena, un’opera che ridurre al solo, popolarissimo, tema iniziale significa peccare di superficialità e perdersi un viaggio dalle tenebre alla luce, dopo il quale ci si sente rinfrancati e puliti, come dopo una bella doccia calda. Tubular Bells è anche la storia dell’incontro di due visionari: Mike e Richard. Richard Branson fu travolto dal demo che il compositore inglese gli propose, al punto da creare appositamente per lui un’etichetta discografica che gli permettesse di pubblicare il disco. Il resto è storia. L’album, spinto anche dalla decisione di William Friedkin (lo stesso che, poi, avrebbe “inguaiato” Peter Gabriel con i Genesis) di adoperare il celeberrimo tema iniziale per il film L’esorcista, divenne un successo di dimensioni mastodontiche, con oltre dieci milioni di copie vendute in tutto il mondo e la Virgin di Branson divenne la più influente casa discografica del music business, sacrificata, nel 1992, per realizzare una compagnia aerea con lo stesso moniker e, successivamente, diverse altre attività (tra cui, delle palestre di fitness, le uniche che ho frequentato, perdendo il vizio, però, molto presto). La lunga suite, che occupa l’intero album omonimo, diviene, di conseguenza, un’epifania, in molti sensi. Mike Oldfield si trascinerà dietro la sua opera, come fosse un fantasma gentile, molto a lungo: diverrà lo stampino di partenza per mol
te delle successive avventure discografiche (suite capolavoro come Hergest Ridge, Ommadawn e la fascinosa Amarok, divise sulle due facciate di album con lo stesso titolo) e, addirittura, aggiungerà dei capitoli successivi alla storia (TB II, TB III e THE MILLENNIUM BELLS), prevedibilmente meno evocativi e riusciti, rispetto all’originale. La formula della suite rimase cara all’artista, che la ripropose frequentemente all’interno della sua discografia, come in CRISES, altro enorme successo, trascinato dal singolo Moonlight Shadow, una delle canzoni più identificative degli anni Ottanta. La prima facciata conteneva la title-track: l’ennesima suite riuscita del piccolo genio di Reading e, nella parte finale della stessa, un fantasmagorico Simon Phillips rendeva il climax della traccia semplicemente meraviglioso, con un drumming che mi fece acuire i miei sensi di ragno batteristico, quasi fino a farmi male. Una piccola curiosità: nel 2003, Oldfield pubblicò una nuova versione di TUBULAR BELLS, rimasterizzata e corretta attraverso le nuove tecnologie, con una piccola differenza: la voce del Maestro di Cerimonia, la voce che preannuncia gli strumenti che si aggiungono al riff nella parte finale della prima facciata, fu sostituita con quella di John Cleese, uno degli incontrastati geni del combo Monty Python. Gli intrecci, la presenza di molteplici strumenti che danzano insieme, le variazioni climatiche della stanza sonora: ognuno reagisce in maniera diversa al flusso continuo di quasi un’ora di composizione, è un’esperienza che, comunque, andrebbe fatta, che consiglio vivamente, a patto di essere capaci di porsi all’ascolto del disco con l’atteggiamento giusto, attraverso un rapporto con il tempo che ci riporti alle vecchie abitudini. Quelle giuste, quando si tratta di farsi attraversare la vita dalla musica. Non ho voluto descrivere passo passo un’opera monumentale come TUBULAR BELLS perché ho preferito lasciar parlare le mie emozioni, che sono quelle di chi pensa che l’esperienza “progressiva” si viva di getto. Due parole sulla parte finale del disco. Basterebbe quello per smontare le convinzioni di chi reputa Oldfield un musone schivo e troppo autoreferenziale. In conclusione della seconda facciata, dal nulla, il Nostro intona The Sailors Hornpipe, antico motivo tradizionale britannico, noto anche per essere stato il tema musicale di un cartone animato iconico per i bambini di tanto tempo fa. Ecco: provateci voi a realizzare un disco che inizia con la colonna sonora di un film dell’orrore e termina con quella di Braccio di ferro.