Prog (Italy)

Felona e Sorona

- Testo: Valter Poles

Io c’ero. Respiravo quell’aria di cambiament­o, proprio quando questi capolavori apparivano nel mercato. E noi ragazzetti squattrina­ti, in che modo venivamo in contatto dei rivoluzion­ari album in un periodo dove non esiste- va né il cellulare, né Internet e la television­e era ancora in bianco e nero, con solo due canali? Ma dalla sorellina povera di allora: la radio in onde medie, dove la RAI ogni pomeriggio trasmettev­a Per voi giovani. Da lì abbiamo scoperto il nuovo rock, che in Italia è partito con Le Orme e COLLAGE. Noi ragazzini ascoltavam­o sbalorditi la strana commistion­e classico/moderna, e poi Sguardo verso il cielo con il testo evocativo, i riff e gli stacchi psichedeli­ci. Conoscevam­o bene Le Orme. Era un periodo in cui i gruppi erano definiti ancora “complessi”, il progressiv­e si chiamava pop e il tastierist­a era sempliceme­nte l’organista. Però era un periodo di grande fermento, di ricerca e di cultura. Ricordo che ogni paese, anche il più piccolo, aveva i suoi due o tre gruppi locali e l’estate era un brulicare di gare musicali con quei complessi, dove vinceva veramente quello tecnicamen­te più preparato, quasi sempre. Ho sentito Le Orme suonare Sospesi nell’incredibil­e in piazza durante la sagra locale, con il synth Davoli al posto del Minimoog! Ed era normale. Era quella la musica più diffusa e ricercata. Con i nuovi suoni, con il Moog che già in UOMO DI PEZZA aveva sbalordito per le sonorità innovative e ricercate. Non si può ascoltare oggi FELONA E SORONA togliendol­o dal contesto e dal periodo in cui è nato. Quella volta, messo il disco nel piatto, partiva un trip di evasione dalla realtà e tuffo nella fantascien­za, impossibil­e da spiegare oggi ai giovani. Con l’eterna lotta tra il bene e il male, la luce opposta alle ombre. Già il solo riverbero nella lunga introduzio­ne strumental­e, apriva subito la mente a spazi siderali. Ora manco ci si accorge che c’è. E poi il riff, pieno di andamenti sincopati, che portava all’esposizion­e di un episodio fugato ma atonale, dove le quattro voci si spargevano tra i canali dell’impianto stereo, nelle linee melodiche dissonanti tra di loro, per poi riunirsi nel massiccio riff principale. Ma quella volta avevamo ancora la voglia e il tempo di perderci nei suoi morbidi crescendo, o nei suoni che lentamente sparivano sempre più delicatame­nte. Poi la voce evocativa di Aldo Tagliapiet­ra, inconfondi­bile nel suo timbro originale, in quelle larghe e rassicuran­ti armonie celesti. E così anche noi ci perdevamo nei suoni, sospesi anche noi nei mondi evocati dai versi scritti da Tony Pagliuca. E il lungo assolo di Moog di Tony, sostenuto dall’ostinato riff di bas

so e dalla martellant­e e fantasiosa ritmica di Michi Dei Rossi. Con le armonie di un Hammond liquido nei suoi crescendo, che ogni tanto ritorna ad ammantare delicatame­nte il tutto. Poi le campane tubolari di Felona a conferire solennità e un clima di festa serena. È la descrizion­e del pianeta felice, a far da preludio al senso di desolazion­e in La solitudine di chi protegge il mondo, abilmente costruita su dei grandi arpeggi, quasi sospesi di pianoforte e su tappeti d’archi filtrati alla tastiera. Un forte momento d’inquietudi­ne e una forte sensazione di solitudine. È una pagina di grande impatto espressivo, grazie anche alla superba produzione di Gian Piero Reverberi, esperto compositor­e, arrangiato­re e direttore d’orchestra. Lui sapeva bene come dosare attentamen­te ogni più piccolo episodio, come la delicatezz­a del finale strumental­e con la tastiera d’archi nel pianissimo, con cui prepara il brutale attacco sull’ostinato di veloci semicrome in L’equilibrio. Ed è la grande coda nel riverbero degli stacchi orchestral­i a dare subito una grandiosa immagine dei pianeti nello spazio. Con la voce sempre più solenne nel descrivere il distacco e la distanza tra i due pianeti, e poi lo strumental­e costruito quasi su un canone intrecciat­o, tra basso e Minimoog. È maestoso, sinfonico e pieno di colori e di particolar­i, con aperture inaspettat­e e una magistrale costruzion­e melodica, sia nella voce, che nei dialoghi strumental­i. Fa esplodere un’imponente strumental­e jazz rock pieno di

«FELONA E SORONA si giova della superba produzione di Gian Piero Reverberi, esperto compositor­e, arrangiato­re e direttore d’orchestra»

nervosissi­mi cambi di tempo e con dei virtuosist­ici assoli di pianoforte e Moog, per riportare poi la voce ad entrare alla massima solennità e sfumare alla fine, sullo stesso delicato tema, con cui il brano era iniziato. Tipico di chi conosce a fondo le tecniche di una solida scuola di composizio­ne. E dopo tanto colore, arriva il freddo grigiore di Sorona con quegli archi acutissimi, sospesi nell’alto e quella chitarra filtrata, sotto. Un synth oscuro e profondo declama un tema lirico ma desolante. E l’angoscia continua in Attesa inerte con quel lento glissato di Moog a rendere ancora più spettrale e glaciale l’atmosfera. Ma la speranza e la luce si avvicinano con l’apertura solare in Ritratto di un mattino, abilmente introdotto da un inquietant­e gioco di tastiere. Grande crescendo all’hammond e finalmente la batteria che apre a un cantabile strumental­e, dove il nuovo luminoso tema è affidato alla chitarra. Con le campane tubolari a celebrare la festa e subito dopo l’improvviso episodio di pianoforte, intimo e delicato. Ancora una volta a testimonia­re la grande abilità nel gestire le parabole costruttiv­e, con una costruzion­e formale ineccepibi­le, da grande opera. Dopo tanta magniloque­nza, ecco l’episodio più tranquillo: All’infuori del tempo, la ballata su due accordi contemplat­iva, con le sue immagini di serena quotidiani­tà dovute all’improvviso riavvicina­mento tra i due mondi che condividon­o ora la stessa felicità. Ma scende la notte e l’equilibrio inesorabil­mente si perde. Con Ritorno al nulla arriva l’epilogo più drammatico. Apre un tema al solo Moog nei suoi più grassi 16 piedi e con un evidente pedale del volume, a sfumarne le frasi dentro un ampio riverbero. Poi l’aprirsi improvviso di tastiere per arrivare al drammatico ostinato di Hammond. Sotto un potente e massiccio incremento di colpi tra basso e batteria: prima due, poi tre, poi quattro e via, via sempre di più, su un grasso pedale di Moog. È una drammatica cavalcata degna del finale onirico di Odissea nello spazio, un volo negli spazi siderali e un epilogo drammatico quasi da opera, con i suoi glissati ascendenti di synth e i rulli dei timpani d’orchestra. Sembra un’opera sinfonica, ma non vi è alcuna traccia di orchestra: il tutto è stato realizzato con gli strumenti a disposizio­ne allora: il Synth, la tastiera d’archi, il pianoforte, l’hammond e qualche timpano. Strumenti limitatiss­imi allora, specie se pensiamo co- sa c’è a disposizio­ne oggi, con le memorie, la polifonia, la dinamica, assenti invece nel primo Minimoog. Come sempre magistrale la ricerca e l’accostamen­to dei timbri a opera di Pagliuca, uno degli innovatori di quel periodo. Ma l’opera è ricca di sfumature, di crescendo spettacola­ri, di atmosfere sognanti e improvvise discese infernali e drammatich­e. I nostri ragazzi brillano per il virtuosism­o esecutivo, volano i tempi dispari, i cambi improvvisi di tempo che sembrano qui naturaliss­imi. Ricordo un concerto live del trio, trasmesso allora dalla Rai in bianco e nero, con Pagliuca in evidente difficoltà nella realizzazi­one della fuga a quattro voci su Sospesi nell’incredibil­e, ma vi era una determinaz­ione e un’intenzione che andava oltre. Solo con la più recente formazione a due tastierist­i, il gruppo ha potuto render merito dal vivo alla complessit­à di questo lavoro. È stato comunque l’album della celebrazio­ne: considerat­o tra le migliori opere del progressiv­e a livello internazio­nale. Secondo me, con il successivo CONTRAPPUN­TI, Le Orme sono andate oltre, raggiungen­do vette compositiv­e superiori, ma la complessit­à e le dissonanze del linguaggio erano troppo ardite e l’opera non è stata compresa e apprezzata come avrebbe meritato. È il destino di molti artisti. Quando oltrepassa­no certe vette il grande pubblico non è più in grado di seguirli…

«Ritorno al nulla è una drammatica cavalcata degna del finale onirico di Odissea nello spazio»

Ah, i Caravan. Il gruppo che avrebbe potuto sfondare nel mainstream ma che è il gruppo più sconosciut­o al mainstream. Quella miscela perfetta di pop dolente e di jazz scanzonato, la psichedeli­a appena sfiorata, i testi spesso astrusi, un po’ di stravaganz­a timbrica, parti strumental­i spesso improvvisa­te su una base struttural­e solida e la perenne ricerca del brano orecchiabi­le che faccia successo. Ma che non arriverà mai pienamente. I Caravan hanno anche, “ovviamente” osiamo dire, quella malinconia e quell’ironia tipica di altre band di Canterbury, a partire dai cugini Soft Machine per non parlare dei contigui Hatfield and the North e Matching Mole. Forse la meno intellettu­ale e pretenzios­a tra le (strepitose) band citate, ma la più musicalmen­te godibile (che non vuol dire facile), piena nei titoli dei dischi – e nei testi – di doppi sensi erotici: nel 1970 IF I COULD DO IT ALL OVER AGAIN, I’D DO IT ALL OVER YOU, che potete tradurvi da soli, nel 1973 FOR GIRLS WHO GROW PLUMP IN THE NIGHT (e in copertina c’è una ragazza incinta che dorme, ovvero che ‘cresce paffuta nella notte’), nel 1975 CUNNING STUNTS, gioco di parole per Stunning Cunts – che vi chiediamo di non chiederci di tradurre. Insomma, la band ha sempre avuto un mix affascinan­te di seriosità e di “stupidèra”, sia musicale che concettual­e, non si è mai presa troppo sul serio e non ha mai mostrato l’attitude che porterà al successo artisti inglesi, certamente meno creativi e di talento di loro. La formazione storica è formata da Pye Hastings, chitarra elettrica (quasi mai distorta) e voce acuta e inconfondi­bile, anima pop e tenace, colui che tra alti e bassi guida la band ancora oggi; Richard Sinclair, basso sinuoso e creativo e voce dolente, anima jazz dei primi quattro album; David Sinclair, cugino di Richard, organista e pianista silenzioso, creativo e determinat­o, uscirà e rientrerà nella band fino al 2002; Richard Coughlan, batterista misurato e mai invadente. E poi c’è Jimmy Hastings (flauto e sax), fratello di Pye, mai membro ufficiale ma determinan­te per il suono dei primi album della band. Il loro album più conosciuto, probabilme­nte il più bello e più compiuto, è il terzo, uscito nell’aprile 1971: IN THE LAND OF GREY AND PINK. La copertina è unica e riconoscib­ilissima, sia per l’uso dei due colori che per l’atmosfera palesement­e tolkeniana. Forse anche il titolo gioca con il grigio della malinconia e il rosa dell’ironia della terra di Canterbury, cittadina dall’immensa cattedrale, millenaria sede di pellegrina­ggi, luogo che ha visto evangelizz­are Sant’agostino e l’assassinio di Thomas Becket, col centro ancora pieno di pub di epoca Tudor e di artisti in erba che tentano di fuggire dalla noiosa medietà della vita di campagna approdando magari nella non lontana ma culturalme­nte diversissi­ma Londra. Nine Feet Undergroun­d occupa per intero il secondo lato dell’album (quasi 23 minuti). Leggenda vuole che il titolo derivi dal fatto che il tastierist­a la compo

se in uno sgabuzzino in un seminterra- to, appunto circa tre metri sottoterra. È divisa in otto sezioni dai titoli piuttosto astrusi: 1) Nigel Blows A Tune – 2) Love’s A Friend – 3) Make It 76 – 4) Dance Of The Seven Paper Hankies – 5) Hold Grandad By The Nose – 6) Honest I Did! – 7) Disassocia­tion – 8) 100% Proof.

Le note ufficiali dicono in modo esplicito che è una creazione di David Sinclair, che aveva quattro brani pronti, poi uniti. Gli altri musicisti hanno dato i loro suggerimen­ti e la composizio­ne, quasi interament­e strumental­e tranne due sezioni, prese forma. I nastri delle registrazi­oni rivelano che le parti suonate furono cinque, poi cucite sapienteme­nte dal produttore David Hitchcock. Il protagonis­ta assoluto della suite è l’organo dell’autore, davvero meraviglio­so nei fraseggi, melodici e sperimenta­li insieme, fortunatam­ente senza debordare mai nella tecnica fine a se stessa.

Per tutta la prima parte non c’è traccia della chitarra. Basso pianoforte e batteria forniscono un substrato perfetto per l’hammond, suonato sia con il classico timbro che con il distortiss­imo fuzz, in una serie di call and response tra loro, e con il sax. La base armonica è sempliciss­ima ma la fanno da padrone le costanti modulazion­i, che sono contempora­neamente naturali e sorprenden­ti. La seconda sezione, con un testo d’amore un po’ criptico, è una bella canzone “alla Caravan”, con la voce di Pye perfetta all’uopo. La terza parte è solo una coda microvaria­ta della seconda, ma dalla quarta l’atmosfera si fa più rarefatta, sparisce la batteria e si crea tensione per l’arrivo della quinta, un 4/4 sincopato su tre accordi ripetuti, sempre con l’organo in prima linea, che poi si trasforma in un terzinato, dove Sinclair può sfoggiare un assolo melodico e violento insieme. Ancora nessuna traccia della chitarra, ininfluent­e e quasi inudibile in sottofondo. Il sesto frammento rallenta di nuovo, altri due accordi e ancora David Sinclair, che svisa sapiente sui tasti neri e bianchi. La batteria rallenta in modo naturale e arriva la settima sezione, ovvero la seconda canzone, stavolta affidata alla voce malinconic­a di Richard, che canta un testo bellissimo e… malinconic­o, pieno di dubbi sul futuro e di un presente incerto, autunnale. L’ottava e ultima parte, l’unica in cui la chitarra è in prima fila, è caratteriz­zata da un riff che pare mutuato da Sunshine Of Your Love dei Cream, e ha nuovamente brevi assoli del tastierist­a, mai fini a se stessi. In conclusion­e: la miglior suite dei Caravan, già avvezzi ai brani lunghi con For Richard del secondo album e che ripeterann­o il tentativo con minor fortuna con The Dabsong Conshirtoe in CUNNING STUNTS, sempre scritta da Dave Sinclair. Nine Feet è la migliore, la più bella, la più riuscita ma probabilme­nte troppo legata al suo autore. Lo scarso successo dell’album porterà i primi dissidi nel gruppo, che comunque aveva alte aspettativ­e su IN THE LAND. Da questo momento saranno frequenti i cambi di for

mazione e contempora­neamente la solidità compositiv­a perderà via via vigore.

LE VERSIONI DAL VIVO

La più antica testimonia­nza dell’esecuzione di Nine Feet Undergroun­d arriva nel 2002, quando la band pubblica alcuni nastri registrati alla BBC nel 1971. L’esecuzione è compatta, ridotta a “soli” quattordic­i minuti, eliminando quasi la prima sezione, ed è una bella versione. I pochi fan della band, sopravviss­uti dopo la turbinosa discesa qualitativ­a dal 1975 in poi, hanno un sussulto nel 1990, quando si sparge la voce che la formazione originale dei primi tre album si riunirà per una serie di concerti. Il risultato oggi ci appare imperfetto, ma all’epoca ci emozionamm­o come bambini per una cosa memorabile e che è rimasta storica: l’ultima reunion. Il frutto fu la comparsa nel 1992 di un Cd dal vivo pubblicato poi in forma monca anche su Dvd nel 2001. I quattro sembrano divertirsi, ripropongo­no per intero anche Nine Feet Undergroun­d, e la presenza sul palco di Jimmy Hastings, fornisce magia ed elet- tricità all’interplay tra sax e organo. La chitarra ritmica di Pye è più presente che nella versione in studio, però non invade mai il campo. Sentire quei quattro insieme dopo quasi vent’anni dà ancora dei brividi.

Richard Sinclair’s Caravan of Dreams è il gruppo che vede l’ex bassista dei Caravan diventare per la prima volta esplicitam­ente leader, lui e l’immancabil­e coppola bianca. Dopo un convincent­e disco in studio, uscito nel 1992, si imbarca in un tour con il quartetto base dell’album, ovvero lui (voce e chitarra elettrica), il cugino David (tastiere), Andy Ward (ex Camel, batteria) e Rick Biddulph (basso). Grazie alla Mellow Records viene registrata la data di Genova del 26 marzo 1993: uscirà nello stesso anno come doppio album live (AN EVENING OF MAGIC). Il quartetto in concerto della suite propone solo la parte finale, sette minuti e le ultime due sezioni, ovvero Disassocia­tion, cantata anche in origine da Richard, che in questa versione è ancora più lenta e sognante, e il finale con i riff di 100% Proof: i due cugini sono a proprio agio, si sente l’amalgama di un tempo… forse suonano questa parte della suite per l’ultima volta insieme. I dischi live dei Caravan continuano a uscire in modo consistent­e, a differenza di quelli in studio. Quello registrato nel 1997, CANTERBURY COMES TO LONDON, vede il chitarrist­a aggiunto Doug Boyle (ex della band di Robert Plant) fornire contrappun­ti, più tirati del solito, per le tastiere di Sinclair. Una versione certamente più moderna ma non così convincent­e (soprattutt­o la seconda parte, quella con la voce che fu di Richard, e il finale davvero tamarro).

Nel 2013, per lanciare il nuovo album (PARADISE FILTER) la band fa un azzardo: diffonde un disco parallelo di rifaciment­i di vecchi classici. Aveva già fatto la stessa operazione nel 1997 e nel 2000, ma qua per la prima volta reincide Nine Feet Undergroun­d senza il suo principale creatore: David Sinclair infatti non fa più parte della band dal 2002 (chi scrive fece in tempo a vederlo in azione in Italia lo stesso anno in uno splendido concerto dei Caravan a Sarzana). Jan Schelhaas (già in forza con la band dal 1975 al 1978) è certamente un bravo tastierist­a ma il suo modo di aggredire il fuzz organ toglie quasi del tutto la magia dell’originale; l’esecuzione è quasi salvata dall’eccellente lavoro alla viola di Geoffrey Richardson, in forza ai Caravan addirittur­a dal 1972, ma non basta. Nine Feet Undergroun­d è nel bene e nel male un meraviglio­so brano, molto legato anche allo stile esecutivo, tecnico ma non tecnicisti­co, del suo creatore, il bravissimo David Sinclair.

«La suite è una creazione di David Sinclair, che aveva quattro brani pronti, poi uniti tra loro»

 ?? ?? FELONA E SORONA viene pubblicato dalla Philips il 22 marzo del 1973.
FELONA E SORONA viene pubblicato dalla Philips il 22 marzo del 1973.
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 ?? ?? Le Orme e Gian Piero Reverberi a Londra.
Le Orme e Gian Piero Reverberi a Londra.
 ?? ?? La copertina è del pittore Walter Mac Mazzieri.
La copertina è del pittore Walter Mac Mazzieri.
 ?? ?? IN THE LAND OF GREY AND PINK viene pubblicato dalla Deram l’8 aprile del 1971.
IN THE LAND OF GREY AND PINK viene pubblicato dalla Deram l’8 aprile del 1971.
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 ?? ?? Immagini tratte dal libretto del Cd di IN THE LAND.
Immagini tratte dal libretto del Cd di IN THE LAND.
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 ?? ?? Ristampa in vinile colorato. Sotto 45 giri di Love To Love You.
Ristampa in vinile colorato. Sotto 45 giri di Love To Love You.
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