Felona e Sorona
Io c’ero. Respiravo quell’aria di cambiamento, proprio quando questi capolavori apparivano nel mercato. E noi ragazzetti squattrinati, in che modo venivamo in contatto dei rivoluzionari album in un periodo dove non esiste- va né il cellulare, né Internet e la televisione era ancora in bianco e nero, con solo due canali? Ma dalla sorellina povera di allora: la radio in onde medie, dove la RAI ogni pomeriggio trasmetteva Per voi giovani. Da lì abbiamo scoperto il nuovo rock, che in Italia è partito con Le Orme e COLLAGE. Noi ragazzini ascoltavamo sbalorditi la strana commistione classico/moderna, e poi Sguardo verso il cielo con il testo evocativo, i riff e gli stacchi psichedelici. Conoscevamo bene Le Orme. Era un periodo in cui i gruppi erano definiti ancora “complessi”, il progressive si chiamava pop e il tastierista era semplicemente l’organista. Però era un periodo di grande fermento, di ricerca e di cultura. Ricordo che ogni paese, anche il più piccolo, aveva i suoi due o tre gruppi locali e l’estate era un brulicare di gare musicali con quei complessi, dove vinceva veramente quello tecnicamente più preparato, quasi sempre. Ho sentito Le Orme suonare Sospesi nell’incredibile in piazza durante la sagra locale, con il synth Davoli al posto del Minimoog! Ed era normale. Era quella la musica più diffusa e ricercata. Con i nuovi suoni, con il Moog che già in UOMO DI PEZZA aveva sbalordito per le sonorità innovative e ricercate. Non si può ascoltare oggi FELONA E SORONA togliendolo dal contesto e dal periodo in cui è nato. Quella volta, messo il disco nel piatto, partiva un trip di evasione dalla realtà e tuffo nella fantascienza, impossibile da spiegare oggi ai giovani. Con l’eterna lotta tra il bene e il male, la luce opposta alle ombre. Già il solo riverbero nella lunga introduzione strumentale, apriva subito la mente a spazi siderali. Ora manco ci si accorge che c’è. E poi il riff, pieno di andamenti sincopati, che portava all’esposizione di un episodio fugato ma atonale, dove le quattro voci si spargevano tra i canali dell’impianto stereo, nelle linee melodiche dissonanti tra di loro, per poi riunirsi nel massiccio riff principale. Ma quella volta avevamo ancora la voglia e il tempo di perderci nei suoi morbidi crescendo, o nei suoni che lentamente sparivano sempre più delicatamente. Poi la voce evocativa di Aldo Tagliapietra, inconfondibile nel suo timbro originale, in quelle larghe e rassicuranti armonie celesti. E così anche noi ci perdevamo nei suoni, sospesi anche noi nei mondi evocati dai versi scritti da Tony Pagliuca. E il lungo assolo di Moog di Tony, sostenuto dall’ostinato riff di bas
so e dalla martellante e fantasiosa ritmica di Michi Dei Rossi. Con le armonie di un Hammond liquido nei suoi crescendo, che ogni tanto ritorna ad ammantare delicatamente il tutto. Poi le campane tubolari di Felona a conferire solennità e un clima di festa serena. È la descrizione del pianeta felice, a far da preludio al senso di desolazione in La solitudine di chi protegge il mondo, abilmente costruita su dei grandi arpeggi, quasi sospesi di pianoforte e su tappeti d’archi filtrati alla tastiera. Un forte momento d’inquietudine e una forte sensazione di solitudine. È una pagina di grande impatto espressivo, grazie anche alla superba produzione di Gian Piero Reverberi, esperto compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra. Lui sapeva bene come dosare attentamente ogni più piccolo episodio, come la delicatezza del finale strumentale con la tastiera d’archi nel pianissimo, con cui prepara il brutale attacco sull’ostinato di veloci semicrome in L’equilibrio. Ed è la grande coda nel riverbero degli stacchi orchestrali a dare subito una grandiosa immagine dei pianeti nello spazio. Con la voce sempre più solenne nel descrivere il distacco e la distanza tra i due pianeti, e poi lo strumentale costruito quasi su un canone intrecciato, tra basso e Minimoog. È maestoso, sinfonico e pieno di colori e di particolari, con aperture inaspettate e una magistrale costruzione melodica, sia nella voce, che nei dialoghi strumentali. Fa esplodere un’imponente strumentale jazz rock pieno di
«FELONA E SORONA si giova della superba produzione di Gian Piero Reverberi, esperto compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra»
nervosissimi cambi di tempo e con dei virtuosistici assoli di pianoforte e Moog, per riportare poi la voce ad entrare alla massima solennità e sfumare alla fine, sullo stesso delicato tema, con cui il brano era iniziato. Tipico di chi conosce a fondo le tecniche di una solida scuola di composizione. E dopo tanto colore, arriva il freddo grigiore di Sorona con quegli archi acutissimi, sospesi nell’alto e quella chitarra filtrata, sotto. Un synth oscuro e profondo declama un tema lirico ma desolante. E l’angoscia continua in Attesa inerte con quel lento glissato di Moog a rendere ancora più spettrale e glaciale l’atmosfera. Ma la speranza e la luce si avvicinano con l’apertura solare in Ritratto di un mattino, abilmente introdotto da un inquietante gioco di tastiere. Grande crescendo all’hammond e finalmente la batteria che apre a un cantabile strumentale, dove il nuovo luminoso tema è affidato alla chitarra. Con le campane tubolari a celebrare la festa e subito dopo l’improvviso episodio di pianoforte, intimo e delicato. Ancora una volta a testimoniare la grande abilità nel gestire le parabole costruttive, con una costruzione formale ineccepibile, da grande opera. Dopo tanta magniloquenza, ecco l’episodio più tranquillo: All’infuori del tempo, la ballata su due accordi contemplativa, con le sue immagini di serena quotidianità dovute all’improvviso riavvicinamento tra i due mondi che condividono ora la stessa felicità. Ma scende la notte e l’equilibrio inesorabilmente si perde. Con Ritorno al nulla arriva l’epilogo più drammatico. Apre un tema al solo Moog nei suoi più grassi 16 piedi e con un evidente pedale del volume, a sfumarne le frasi dentro un ampio riverbero. Poi l’aprirsi improvviso di tastiere per arrivare al drammatico ostinato di Hammond. Sotto un potente e massiccio incremento di colpi tra basso e batteria: prima due, poi tre, poi quattro e via, via sempre di più, su un grasso pedale di Moog. È una drammatica cavalcata degna del finale onirico di Odissea nello spazio, un volo negli spazi siderali e un epilogo drammatico quasi da opera, con i suoi glissati ascendenti di synth e i rulli dei timpani d’orchestra. Sembra un’opera sinfonica, ma non vi è alcuna traccia di orchestra: il tutto è stato realizzato con gli strumenti a disposizione allora: il Synth, la tastiera d’archi, il pianoforte, l’hammond e qualche timpano. Strumenti limitatissimi allora, specie se pensiamo co- sa c’è a disposizione oggi, con le memorie, la polifonia, la dinamica, assenti invece nel primo Minimoog. Come sempre magistrale la ricerca e l’accostamento dei timbri a opera di Pagliuca, uno degli innovatori di quel periodo. Ma l’opera è ricca di sfumature, di crescendo spettacolari, di atmosfere sognanti e improvvise discese infernali e drammatiche. I nostri ragazzi brillano per il virtuosismo esecutivo, volano i tempi dispari, i cambi improvvisi di tempo che sembrano qui naturalissimi. Ricordo un concerto live del trio, trasmesso allora dalla Rai in bianco e nero, con Pagliuca in evidente difficoltà nella realizzazione della fuga a quattro voci su Sospesi nell’incredibile, ma vi era una determinazione e un’intenzione che andava oltre. Solo con la più recente formazione a due tastieristi, il gruppo ha potuto render merito dal vivo alla complessità di questo lavoro. È stato comunque l’album della celebrazione: considerato tra le migliori opere del progressive a livello internazionale. Secondo me, con il successivo CONTRAPPUNTI, Le Orme sono andate oltre, raggiungendo vette compositive superiori, ma la complessità e le dissonanze del linguaggio erano troppo ardite e l’opera non è stata compresa e apprezzata come avrebbe meritato. È il destino di molti artisti. Quando oltrepassano certe vette il grande pubblico non è più in grado di seguirli…
«Ritorno al nulla è una drammatica cavalcata degna del finale onirico di Odissea nello spazio»
Ah, i Caravan. Il gruppo che avrebbe potuto sfondare nel mainstream ma che è il gruppo più sconosciuto al mainstream. Quella miscela perfetta di pop dolente e di jazz scanzonato, la psichedelia appena sfiorata, i testi spesso astrusi, un po’ di stravaganza timbrica, parti strumentali spesso improvvisate su una base strutturale solida e la perenne ricerca del brano orecchiabile che faccia successo. Ma che non arriverà mai pienamente. I Caravan hanno anche, “ovviamente” osiamo dire, quella malinconia e quell’ironia tipica di altre band di Canterbury, a partire dai cugini Soft Machine per non parlare dei contigui Hatfield and the North e Matching Mole. Forse la meno intellettuale e pretenziosa tra le (strepitose) band citate, ma la più musicalmente godibile (che non vuol dire facile), piena nei titoli dei dischi – e nei testi – di doppi sensi erotici: nel 1970 IF I COULD DO IT ALL OVER AGAIN, I’D DO IT ALL OVER YOU, che potete tradurvi da soli, nel 1973 FOR GIRLS WHO GROW PLUMP IN THE NIGHT (e in copertina c’è una ragazza incinta che dorme, ovvero che ‘cresce paffuta nella notte’), nel 1975 CUNNING STUNTS, gioco di parole per Stunning Cunts – che vi chiediamo di non chiederci di tradurre. Insomma, la band ha sempre avuto un mix affascinante di seriosità e di “stupidèra”, sia musicale che concettuale, non si è mai presa troppo sul serio e non ha mai mostrato l’attitude che porterà al successo artisti inglesi, certamente meno creativi e di talento di loro. La formazione storica è formata da Pye Hastings, chitarra elettrica (quasi mai distorta) e voce acuta e inconfondibile, anima pop e tenace, colui che tra alti e bassi guida la band ancora oggi; Richard Sinclair, basso sinuoso e creativo e voce dolente, anima jazz dei primi quattro album; David Sinclair, cugino di Richard, organista e pianista silenzioso, creativo e determinato, uscirà e rientrerà nella band fino al 2002; Richard Coughlan, batterista misurato e mai invadente. E poi c’è Jimmy Hastings (flauto e sax), fratello di Pye, mai membro ufficiale ma determinante per il suono dei primi album della band. Il loro album più conosciuto, probabilmente il più bello e più compiuto, è il terzo, uscito nell’aprile 1971: IN THE LAND OF GREY AND PINK. La copertina è unica e riconoscibilissima, sia per l’uso dei due colori che per l’atmosfera palesemente tolkeniana. Forse anche il titolo gioca con il grigio della malinconia e il rosa dell’ironia della terra di Canterbury, cittadina dall’immensa cattedrale, millenaria sede di pellegrinaggi, luogo che ha visto evangelizzare Sant’agostino e l’assassinio di Thomas Becket, col centro ancora pieno di pub di epoca Tudor e di artisti in erba che tentano di fuggire dalla noiosa medietà della vita di campagna approdando magari nella non lontana ma culturalmente diversissima Londra. Nine Feet Underground occupa per intero il secondo lato dell’album (quasi 23 minuti). Leggenda vuole che il titolo derivi dal fatto che il tastierista la compo
se in uno sgabuzzino in un seminterra- to, appunto circa tre metri sottoterra. È divisa in otto sezioni dai titoli piuttosto astrusi: 1) Nigel Blows A Tune – 2) Love’s A Friend – 3) Make It 76 – 4) Dance Of The Seven Paper Hankies – 5) Hold Grandad By The Nose – 6) Honest I Did! – 7) Disassociation – 8) 100% Proof.
Le note ufficiali dicono in modo esplicito che è una creazione di David Sinclair, che aveva quattro brani pronti, poi uniti. Gli altri musicisti hanno dato i loro suggerimenti e la composizione, quasi interamente strumentale tranne due sezioni, prese forma. I nastri delle registrazioni rivelano che le parti suonate furono cinque, poi cucite sapientemente dal produttore David Hitchcock. Il protagonista assoluto della suite è l’organo dell’autore, davvero meraviglioso nei fraseggi, melodici e sperimentali insieme, fortunatamente senza debordare mai nella tecnica fine a se stessa.
Per tutta la prima parte non c’è traccia della chitarra. Basso pianoforte e batteria forniscono un substrato perfetto per l’hammond, suonato sia con il classico timbro che con il distortissimo fuzz, in una serie di call and response tra loro, e con il sax. La base armonica è semplicissima ma la fanno da padrone le costanti modulazioni, che sono contemporaneamente naturali e sorprendenti. La seconda sezione, con un testo d’amore un po’ criptico, è una bella canzone “alla Caravan”, con la voce di Pye perfetta all’uopo. La terza parte è solo una coda microvariata della seconda, ma dalla quarta l’atmosfera si fa più rarefatta, sparisce la batteria e si crea tensione per l’arrivo della quinta, un 4/4 sincopato su tre accordi ripetuti, sempre con l’organo in prima linea, che poi si trasforma in un terzinato, dove Sinclair può sfoggiare un assolo melodico e violento insieme. Ancora nessuna traccia della chitarra, ininfluente e quasi inudibile in sottofondo. Il sesto frammento rallenta di nuovo, altri due accordi e ancora David Sinclair, che svisa sapiente sui tasti neri e bianchi. La batteria rallenta in modo naturale e arriva la settima sezione, ovvero la seconda canzone, stavolta affidata alla voce malinconica di Richard, che canta un testo bellissimo e… malinconico, pieno di dubbi sul futuro e di un presente incerto, autunnale. L’ottava e ultima parte, l’unica in cui la chitarra è in prima fila, è caratterizzata da un riff che pare mutuato da Sunshine Of Your Love dei Cream, e ha nuovamente brevi assoli del tastierista, mai fini a se stessi. In conclusione: la miglior suite dei Caravan, già avvezzi ai brani lunghi con For Richard del secondo album e che ripeteranno il tentativo con minor fortuna con The Dabsong Conshirtoe in CUNNING STUNTS, sempre scritta da Dave Sinclair. Nine Feet è la migliore, la più bella, la più riuscita ma probabilmente troppo legata al suo autore. Lo scarso successo dell’album porterà i primi dissidi nel gruppo, che comunque aveva alte aspettative su IN THE LAND. Da questo momento saranno frequenti i cambi di for
mazione e contemporaneamente la solidità compositiva perderà via via vigore.
LE VERSIONI DAL VIVO
La più antica testimonianza dell’esecuzione di Nine Feet Underground arriva nel 2002, quando la band pubblica alcuni nastri registrati alla BBC nel 1971. L’esecuzione è compatta, ridotta a “soli” quattordici minuti, eliminando quasi la prima sezione, ed è una bella versione. I pochi fan della band, sopravvissuti dopo la turbinosa discesa qualitativa dal 1975 in poi, hanno un sussulto nel 1990, quando si sparge la voce che la formazione originale dei primi tre album si riunirà per una serie di concerti. Il risultato oggi ci appare imperfetto, ma all’epoca ci emozionammo come bambini per una cosa memorabile e che è rimasta storica: l’ultima reunion. Il frutto fu la comparsa nel 1992 di un Cd dal vivo pubblicato poi in forma monca anche su Dvd nel 2001. I quattro sembrano divertirsi, ripropongono per intero anche Nine Feet Underground, e la presenza sul palco di Jimmy Hastings, fornisce magia ed elet- tricità all’interplay tra sax e organo. La chitarra ritmica di Pye è più presente che nella versione in studio, però non invade mai il campo. Sentire quei quattro insieme dopo quasi vent’anni dà ancora dei brividi.
Richard Sinclair’s Caravan of Dreams è il gruppo che vede l’ex bassista dei Caravan diventare per la prima volta esplicitamente leader, lui e l’immancabile coppola bianca. Dopo un convincente disco in studio, uscito nel 1992, si imbarca in un tour con il quartetto base dell’album, ovvero lui (voce e chitarra elettrica), il cugino David (tastiere), Andy Ward (ex Camel, batteria) e Rick Biddulph (basso). Grazie alla Mellow Records viene registrata la data di Genova del 26 marzo 1993: uscirà nello stesso anno come doppio album live (AN EVENING OF MAGIC). Il quartetto in concerto della suite propone solo la parte finale, sette minuti e le ultime due sezioni, ovvero Disassociation, cantata anche in origine da Richard, che in questa versione è ancora più lenta e sognante, e il finale con i riff di 100% Proof: i due cugini sono a proprio agio, si sente l’amalgama di un tempo… forse suonano questa parte della suite per l’ultima volta insieme. I dischi live dei Caravan continuano a uscire in modo consistente, a differenza di quelli in studio. Quello registrato nel 1997, CANTERBURY COMES TO LONDON, vede il chitarrista aggiunto Doug Boyle (ex della band di Robert Plant) fornire contrappunti, più tirati del solito, per le tastiere di Sinclair. Una versione certamente più moderna ma non così convincente (soprattutto la seconda parte, quella con la voce che fu di Richard, e il finale davvero tamarro).
Nel 2013, per lanciare il nuovo album (PARADISE FILTER) la band fa un azzardo: diffonde un disco parallelo di rifacimenti di vecchi classici. Aveva già fatto la stessa operazione nel 1997 e nel 2000, ma qua per la prima volta reincide Nine Feet Underground senza il suo principale creatore: David Sinclair infatti non fa più parte della band dal 2002 (chi scrive fece in tempo a vederlo in azione in Italia lo stesso anno in uno splendido concerto dei Caravan a Sarzana). Jan Schelhaas (già in forza con la band dal 1975 al 1978) è certamente un bravo tastierista ma il suo modo di aggredire il fuzz organ toglie quasi del tutto la magia dell’originale; l’esecuzione è quasi salvata dall’eccellente lavoro alla viola di Geoffrey Richardson, in forza ai Caravan addirittura dal 1972, ma non basta. Nine Feet Underground è nel bene e nel male un meraviglioso brano, molto legato anche allo stile esecutivo, tecnico ma non tecnicistico, del suo creatore, il bravissimo David Sinclair.
«La suite è una creazione di David Sinclair, che aveva quattro brani pronti, poi uniti tra loro»