IL BANCO FA 13
MILANO, 23 SETTEMBRE 1994. A NOVE ANNI DA E VIA, INTERVALLATI DA UN PROGETTO DISCOGRAFICO DI FRANCESCO (NON METTERTI LE DITA NEL NASO, 1989), IL BANCO DEL MUTUO SOCCORSO TORNA CON IL 13. L’INTERVISTA NON È MAI STATA PUBBLICATA INTERAMENTE, SOLO PARZIALMENTE SU «PAPERLATE» 33, FANZINE DI ROCK PROGRESSIVO.
Francesco Di Giacomo e Vittorio Nocenzi, colonne del Banco, affrontano la prova più complicata nel giro promozionale de IL 13 (una di quelle cose che una band di solito detesta): parlare di un disco che di prog ha poco (in senso stretto) a dei fan che di prog scrivono. Siamo in una fase cruciale per la carriera della band, appena uscita da un (inaspettato) successo di pubblico e critica per la registrazione dei primi due album in chiave moderna con annesso tour (1993), di fronte ad una nuova prova discografica, che non può essere un semplice ritorno al passato ma neppure qualcosa che si alieni lo zoccolo duro del pubblico di DARWIN! e del SALVADANAIO. Una parte della redazione di «Paperlate» (Ezio Candrini, Alberto Manzini ed il sottoscritto) si ritrova davanti Francesco e Vittorio per una “sfida con il fioretto”. Non abbiamo intenzione di cedere al nostro “credo” musicale, né farci convincere dalle belle parole accomodanti, però alla fine usciamo dalla EMI con un pareggio che accontenta tutti. Una “battaglia” durante la quale noi vogliamo parlare del tour con i Gentle Giant mentre Francesco è proteso verso i nuovi concerti. Più che un’intervista il resoconto sembra il “manifesto” artistico del Banco anni 90, vera e propria dichiarazione d’intenti. Quando nasce IL 13? VN: Abbiamo iniziato questo lavoro molti anni fa, avendo il privilegio di farlo da persone completamente libere, non sapendo per chi l’avremmo pubblicato. Se non siamo liberi noi non so chi altri lo possa essere. Senza avere garanzie o una rete di salvataggio: io parto e scrivo per dimostrare che esisto e che ho voglia di dare emozioni e stimoli. Il progetto ha avuto una lunga gestazione, ma fortunatamente questi anni 90 sono differenti dagli anni 80. Ti offrono una corsia preferenziale sulla quale stare. Avremmo potuto produrre tanti dischi diversi. Un lavoro progressive perché va di moda? Allora faccio il clone di me stesso, dato che come caposcuola del genere sono il più autorizzato a farlo? A me cosa porta oggi far uscire un disco così? Io voglio partire dal rock progressive, base delle mie radici, ed interpretarlo oggi. Quando avevo vent’anni ho scritto Il giardino del mago e imperava la musica leggera. Solo il gesto di scrivere un pezzo del genere era un’avanguardia micidiale, una provocazione culturale ed artistica fortissima. Lo stesso genere di musica oggi non avrebbe il medesimo significato, almeno da parte nostra. FDG: Se un ragazzo di vent’anni bestemmia è trasgressivo. Se lo fa un uomo di 40 anni è blasfemo. La differenza sta tutta lì. VN: E allora dovevamo operare una sintesi. Se non vado avanti di un metro nella mia evoluzione artistica perché faccio il musicista? Abbiamo voluto raccontare questo disco con enorme semplicità, immediatezza ed energia. La copertina spiega tutto con un dipinto rupestre del 2500 a.c.
«Quando Francesco iniziava a cantare tutto s’illuminava, ogni volta, ovunque…» Francesco Di Giacomo
Se ti avessi detto che era un disegno di Mirò per te sarebbe stato uguale: ieri e domani si congiungono sempre. Dovevamo passare dalle nostre radici ai nostri successi fino ad avere una prospettiva sul futuro. Brani come Emiliano o Anche Dio ne sono un esempio. Il concetto è di constatare che ritornano certi accadimenti, mai esattamente uguali, altrimenti la storia si ferma. Ci sono voluti oltre 6400 anni perché un artista come Mirò riproponesse una pittura derivata dalle opere rupestri. Gli anni 80, che sono stati gli “anni di piombo” della musica, hanno lasciato un bisogno di comunicare e bisognava capire la formula di quale linguaggio utilizzare. Non dovevamo comporre ancora delle minisuite ma riutilizzare i chiaroscuri musicali, tipici del Banco, l’aggressività e la dolcezza oppure i momenti vocali forti e quelli strumentali. Ma il tutto doveva essere sfrondato, attualizzato, togliendo il di più e cercando di conquistare un’apparente semplicità, difficilissima da raggiungere. Non per essere presuntuosi, ma un’altra Il giardino del mago l’avremmo potuta comporre con la mano sinistra, come stile, ma si sarebbe trattato di una ripetizione. Io ritorno sul “luogo del delitto” in maniera attiva, non passiva.
Nel disco non c’è una struttura consolidata della band, infatti hanno collaborato tanti musicisti. Il Banco oggi è un gruppo o un progetto aperto?
FDG: Se rifletti bene e conosci la nostra storia, già da IO SONO NATO LIBERO c’era il Banco con altri musicisti che collaboravano. La stessa cosa su CANTO DI PRIMAVERA. Il nucleo è oggi formato da me, Vittorio, Rodolfo Maltese e Pierluigi Calderoni. Manca solo Gianni Nocenzi. Ma, per rispondere alla tua domanda, c’è un discorso di fondo che voglio fare. Io non mi fido di voi giornalisti e addetti ai lavori (ride) perché questo è un tempo di grandi sospetti. L’orecchio è abituato a suoni omofoni, tutti uguali. Negli ultimi dieci anni si è avuta musica di elaborata produzione ma appiattita al volere delle case discografiche, che alla fine dell’anno devono tirare su un bilancio in positivo – e nessuno gliene può fare un torto – ed ha determinato un inaridimento delle idee con arrangiamenti e lavorazioni troppo simili. Ed è per questo che non mi “fido” delle vostre orecchie, ma non mi fido neppure delle mie, che ascoltano come voi lo stesso appiattimento, al di fuori di cose che escono dal cerchio e che mi piacciono molto, come gli Almamegretta. Però voi che ascoltate 40 dischi al mese probabilmente ne avete abbastanza di chi propone discorsi seri, pensando di farvi provare emozioni. Siamo stati in silenzio per nove anni, questo non vuol dire che non avevamo nulla da dire e che non abbiamo composto musiche e testi. La verità è che poi devi sempre confrontarti con l’ascoltatore, rischiando di “pisciare in mare” [nel senso di credere di fare qualcosa che ha un impatto mentre non ne ha, ndr]. Questa premessa per dire che abbiamo voluto tentare di fare musica con un certo tipo di melodia ed un certo tipo di riconoscibilità, insomma lo stile del Banco. Ma per evitare di riempirci la bocca di luoghi comuni, siamo andati a cercare i pezzi che stavano davvero bene a noi ma che non
necessariamente seguivano la regola del “Francesco deve cantare tutti i pezzi” oppure “Vittorio deve suonare tutte le tastiere”. Per cui Francesco non canta in tre pezzi e Rodolfo non suona tutte le chitarre o Pierluigi tutte le batterie. Bisogna essere al servizio del potenziamento della nostra musica, per consentire ad ognuno di noi di potersi innamorare di uno o più pezzi a cui stavamo lavorando. Vittorio ha espresso il desiderio di poter cantare in due momenti dell’album – non dimenticate che lui è stata la voce originale della prima formazione del Banco – e in un terzo che io non sentivo mio. Credo che nessuno metta in dubbio le capacità di Rodolfo come chitarrista ma anche lui ha la sua sensibilità, che in alcuni brani non andava bene. Ed è così che non abbiamo preso famosi colleghi turnisti, che sarebbero stati ancora più “intossicati” di noi a forza di suonare in dischi per altri, ma giovani musicisti poco conosciuti, che potessero darci la loro parte più istintiva e genuina.
Quanto tempo ci avete messo per preparare l’album?
VN: Sei mesi per la composizione, quattro di preproduzione, tre di registrazione e altri tre di missaggio, in totale oltre un anno e mezzo.
DI TERRA è una grande opera anche se è strumentale…
VN: Grazie per la citazione. Quel disco è stato il culmine della sperimentazione, in cui non me ne fregava nulla quanto (non) cantava Francesco o quanto io (non) suonassi il piano o il Minimoog. L’ultimo disco di Roger Waters [si riferisce ad AMUSED TO DEATH, ndr] ha la voce stonata, che non si può ascoltare, ma ha la chitarra celestiale di Jeff Beck e c’è un sacco di gente che ci suona. Per questo motivo si sente meno la presenza di Waters? Io credo di no. Frank Zappa era un normale chitarrista ma un grande musicista, un capiente involucro di racconti e di espressione. Questo è lo spirito che abbiamo voluto infondere nel nuovo disco.
Visto che si tratta di un progetto “aperto”, ci si chiede chi suonerà in tour…
FDG: Oltre a Vittorio ed io ci saranno Pierluigi alla batteria – anche se al momento è impegnato
«Io voglio poter “sbagliare” un album nella consapevolezza di averlo fatto in modo sincero» FDG
in altri progetti – Rodolfo e Tiziano Ricci al basso, che sta con noi da sei anni. Se Calderoni non sarà disponibile useremo uno dei batteristi che ha suonato nell’album [alla fine la scelta è caduta su Maurizio Masi, ndr]. Ma anche per il tour avremo un approccio non scontato: dobbiamo veramente farlo? Vedremo. Non possiamo più rincorrere i soliti cliché di venti anni fa. Tutto questo è IL 13, un prodotto di sintesi dal quale mancavamo da troppo tempo, che doveva essere impegnativo ma leggero come un “unplugged”. Sirene e Tirami una rete sono l’ideale prosecuzione di R.I.P. con gli stessi ingredienti (rabbia, adrenalina, urlo, tenerezza e dolcezza), comunicati con la velocità attuale.
Avete mai pensato ad un live celebrativo di tutta la vostra carriera?
VN: Avete ragione, è qualcosa che avremmo dovuto fare da tempo ma rimedieremo presto alla mancanza…
E ci sono anche pochi bootleg in giro…
FDG: Ma quei pochi sono bruttissimi. Ce n’è uno registrato a Modena [si riferisce a LIVE, pubblicato per la Mellow Records nel 1993, ndr] che è terrificante, fatto con il registratore Geloso dell’epoca…
Che rapporto avete con le altre band degli anni 70? Vi frequentate ancora?
FDG: L’amicizia esisteva. È solo la mancanza di tempo che c’impedisce di frequentarci più assiduamente. L’amicizia è fatta dall’appartenenza ad un certo giro. Mentre stavamo girando il video per il singolo ci ha chiamato Patrizio Fariselli che sento sempre con estremo piacere. Come anche Mauro Pagani o Flavio Premoli. Sappia
mo che la PFM si è rimessa insieme e che produrranno un nuovo album [che sarà ULISSE, uscito “solo” tre anni più tardi, ndr]. Mi auguro un gran disco senza cadere nella tentazione di tornare indietro. Abbiamo ascoltato il nuovo degli Yes, bellissimo e senza nostalgia alcuna [si riferisce a TALK, ndr], però freddo da morire. VN: Non m’interessa dimostrare di essere il tastierista più veloce del West ma presentare il nostro linguaggio. Mi sono divertito un casino al pianoforte su Guardami le spalle, dove lo suono poco o nulla, ma anche esprimermi in modo selvaggio in Emiliano, come facevo in Metamorfosi. Perché Keith Emerson, musicista dal tuo stesso background, ha un approccio molto più conservativo rispetto alla sua musica? VN: Io sono diverso da lui, come il Banco lo era da PFM e Area. In realtà si veniva etichettati come “diversi” perché combattevamo tutti l’omologazione. Ma nella diversità ognuno era diverso rispetto agli altri. La PFM la buttava sulla perizia strumentale, noi più sul discorso di gruppo. Loro non avevano una vocalità spiccata come quella di Francesco, però possedevano anche un virtuosismo più accentuato e maggiore propensione verso il rock al di fuori dei confini italiani. Hanno avuto come testimonial prima King Crimson e Yes, poi Weather Report. Ognuno ha una storia propria. Purtroppo allora doveva esserci l’antagonismo come nel ciclismo con Gino Bartali e Fausto Coppi… dovevamo per forza vederci come nemici. Se avessimo potuto far cantare a Francesco Impressioni di settembre? Magari sì, ma sarebbe stata un’operazione-nostalgia… La Phonogram ha pubblicato una compilation de Le Orme (ANTOLOGIA 1970-1980, edita nel 1993), che ha venduto 50.000 copie in scioltezza. La band allora è andata a proporgli un disco d’inediti (che diventerà IL FIUME, ndr], hanno fatto spallucce e non glielo hanno pubblicato… FDG: È logico! Tutti hanno paura di sbagliare un prodotto. Io voglio poter “sbagliare” un prodotto nella consapevolezza di averlo fatto in modo sincero. Oggi non scriverei più “Ma il labbro inerte non sa dire niente” [750.000 anni fa… l’amore?, ndr] perché devo rendermi conto di quello che mi gira intorno nel 1994. Se qualcuno pensa che non sia più poesia… sono problemi suoi. Ho composto cose con Vittorio senza preoccuparmi che il risultato fosse poetico. Parlavamo di Emerson. Che giudizio di BANCO (1975) per la Manticore? FDG: Io lo considero un’occasione perduta per colpa del management. Ma ci ha aperto delle porte straordinarie con un lungo tour europeo insieme ai Gentle Giant… Parigi, Bruxelles, tutta la Germania. Musicalmente fu il primo album dal vivo del Banco, registrato interamente in studio. Ma noi tutti viviamo ancora di preconcetti o pregiudizi. A quasi 20 anni da quel tour, sappiamo per certo che sull’italia c’è ancora un grande pregiudizio musicale: siamo la nazione dell’impero roma
no, Sophia Loren e degli spaghetti. La credibilità di poter esportare la nostra musica sta a zero e non è un caso che oggi non esistono più case discografiche italiane, tranne la Fonit Cetra, e non vi sono limiti all’importazione di musica straniera. Se vogliamo che le band giovani di prog, che sono numerose e valide, non trovino un muro davanti o che Le Orme non abbiano strani dinieghi, bisogna che le testate specializzate si battano affinché possano avere un mercato. Con IL 13 siete quasi in controtendenza, almeno rispetto a quelli che affermano con fierezza che il loro disco è immediato, composto e registrato in una settimana… FDG: Abbiamo voluto catturare l’emozione del momento, per questo diciamo che è un disco poco “mediato”. Siamo sempre stati in controtendenza. Nel 1978, con la disco music imperante e i cantautori che volevano affermare la vocalità estrema, noi abbiamo pubblicato DI TERRA. Negli anni 80, dopo la nausea dei suoni plastificati e della tecnologia fine a se stessa, ecco che saltano fuori i primi dischi unplugged con un momento di espressione diversa. Il rock contiene tutto e niente, anche se non si è mai improvvisato in un giorno. Tutti i grandi lavori di progressive hanno avuto una lunga sedimentazione e preparazione. VN: Un altro aspetto importante di questi anni è il ricambio generazionale. Vi è una fruizione più facile della musica e dell’età media di chi l’ascolta. Una volta a 30 anni eri una cariatide, oggi nessuno si sente vecchio a 40 o 50 anni. Mia figlia Viola è nata nell’anno di CANTO DI PRIMAVERA, non ha mai voluto ascoltare la mia musica e me ne sono reso conto il giorno che l’ho pizzicata con un disco di Marco Masini. Ma IL 13 l’ha voluto riascoltare dieci volte, facendomi le pulci sui vari pezzi. Io in questo momento voglio affermarmi come compositore più che come musicista, non voglio che il Banco sia un progetto chiuso. Gianni Nocenzi potrebbe tornare oppure no. È importante cambiare gli schemi. Da questo punto di vista io ho un modello, possa piacere o no: Franco Battiato. Lui nei primi anni 70 non sapeva suonare una nota e ha cavalcato la “tigre” con una demagogia da prenderlo a schiaffi, quando in un concerto – supporter agli Area – suonò il solo Minimoog per tre quarti d’ora. Io, che venivo dal conservatorio, lo vedevo quasi come eversivo e rimasi commosso da POLLUTION, in particolare da Il silenzio del rumore, brano classicheggiante, dove ha un’intuizione comunicativa che trovavo geniale. Poi Franco si è messo a studiare la musica veramente. Lo incontrammo a casa dei suoi genitori nel 1979 con Luigi Mantovani, discografico e amico del Banco, che studiava il violino. Da “disoccupato intellettuale” ha iniziato a conoscere la lingua araba e quella cultura. Poi ha trovato la sua sintesi con L’ERA DEL CINGHIALE BIANCO, un grande disco per l’epoca ed il contesto che lo circondava. Dopo aver dato il suo contributo alla canzone leggera ha fatto un altro salto e si sta evolvendo. È quindi l’inizio di una nuova era? FDG: Delle ere non me ne frega niente. Non m’importa dei generi, non m’interessa più di niente! Voglio che il mio lavoro nella musica sia l’espressione di ciò che sono oggi. Non devo vivere di riflesso. Che ci dite delle ultime prove di Emerson, Lake & Palmer, in particolare di BLACK MOON? VN: Non mi piace commentare pubblicamente il lavoro di altri artisti. Il disco l’ho ascoltato e me ne sono fatto un’opinione [dalla risposta si evince che non dev’essere stata positiva, ndr], ma preferisco soffermarmi sui giudizi che mi hanno riportato sul concerto di Modena (novembre 1992) in cui c’era una band in forma strepitosa. Per integrare la mia risposta ti dico: Keith Emerson è un grande musicista, estremamente preparato, ma la cui immagine dell’accoltellamento dell’hammond faceva più scena della sua preparazione e della sua cultura. Quando ha concepito ARS LONGA VITA BREVIS (1968) con i Nice era avanti anni luce a tutti. Durante le improvvisazioni miscelava alta cultura musicale con semplicità, da Aaron Copland a Béla Bartók. Al contrario, ritengo Rick Wakeman scontato, accademico e scolastico. Non m’importa nulla dei fraseggi sulla scala in Do maggiore, in cui vai 2000 all’ora. Preferisco Steve Winwood, che in SECOND ALBUM (1966) dello Spencer Davis Group improvvisa su Georgia On My Mind; a 15 anni trascrissi quell’assolo e ancora oggi lo canticchio. Ho avuto il privilegio di suonarci insieme nella grande sala-teatro che gli ELP avevano negli anni 70 a Londra.