È DIFFICILE PARLARE DI FRANCESCO
IL 27 MAGGIO 2014 PRINCE FASTER, DJ STORICO DELLA RADIOFONIA ROMANA INDIPENDENTE (OGGI SU RADIOELETTRICA.IT), SCRIVE DI FRANCESCO SUL SITO ROMASUONA.IT.
«Francesco guardava la scena complessiva e s’innamorava dei particolari»
In questi mesi ho provato un paio di volte a mettermi davanti alla tastiera e scrivere di lui, di come l’ho conosciuto, scrivere e raccontare di lui, anche quello che rappresentava per me Francesco Di Giacomo artista. Non ci sono mai riuscito. Qualunque cosa abbia tentato di elaborare mi sembrava banale e priva di significato, vuota, inutile. Ci riprovo oggi sperando di esprimere qualcosa di vagamente sensato, ma non è facile per niente. Il primo concerto del Banco che vidi fu negli anni Settanta al Convento Occupato (Stella Rossafronte rivoluzionario, gruppo marxista-leninista, nel novembre 1976 occupò la struttura, che sino a quel momento aveva gestito con altri gruppi della sinistra extraparlamentare), che stava in via del Colosseo e si affacciava sui Fori Imperiali. Il primo disco lo comprai con tanti sacrifici quando ero ancora un ragazzino; mi mettevo i soldi da parte come un carbonaro, era il 1972 o 1973, non ricordo con precisione, ma DARWIN! mi cambiò la vita, e chi ha la passione per la musica sa esattamente di cosa parlo; certo assieme a quel disco così pieno di musica ascoltavo anche Jimi Hendrix, i Pink Floyd e tutte le “fermate” musicali che un adolescente faceva all’epoca. Lo chiamavano Big perché era veramente “grande”, immerso in quella tuta che faceva parte di lui. Lo vidi in concerto con il BMS tante volte, anche a villa Ada con l’orchestra e i ballerini. Non avevo mai visto uno spettacolo del genere e, in quanto ragazzino, mi incuriosiva ancora di più, mi entusiasmava. Quello spettacolo mi è rimasto piantato nel cuore come una saetta. La vita ogni tanto ti riserva le sue belle sorprese. Iniziai a fare radio e a vivere il mondo della musica più da vicino, finché un giorno la mia vita e quella del Banco si incrociarono dentro una radio e davanti a un microfono. Credo di averli travolti con le domande per una diretta di un paio d’ore… a parlare di musica… io, Vittorio, Francesco e Rodolfo. Penso di avergli chiesto qualunque cosa, ma loro se ne stavano lì tranquilli e sereni a rispondere alle domande di un ragazzetto matto che straparlava. Grandi professionisti. Poi un giorno di molti anni dopo, di molte interviste e molti concerti, li incontrai per caso in un paesino della Toscana, fu proprio lì che conobbi l’uomo Francesco. Un uomo innamorato dell’arte, appassionato di tutto e con tanta voglia di “sapere”. Era uno che guardava la scena complessiva e si innamorava dei particolari. Ma era anche un compagnone, uno di quelli che quando “raccontava” si faceva ascoltare, ed era anche uno che ascoltava molto, ti guardava e rideva, nascosto dietro quella sua barba eterna. I “dopo concerto” erano dei triclini, nonostante suonas
sero in media due/tre ore. Alla fine di ogni serata uscivano e si mettevano a chiacchierare con tutti. Saluti da una parte, abbracci dall’altra. “Mi firmi questo disco? Ti fai una foto con noi?”. E loro sempre pronti e disponibili, Francesco era il più fracassone di tutti, rideva e scherzava come un ragazzino al primo giorno di scuola (chi è stato ai loro concerti mi è buon testimone)… mai una parola fuori posto verso il suo pubblico (eppure, “noi” pubblico siamo dei veri rompicoglioni, diciamocelo), che poi molti di quelli che andavano ai loro concerti erano diventati quasi “di famiglia”. Ho avuto occasione di conoscerlo anche più profondamente Francesco, in uno studio di registrazione per interi pomeriggi mentre il Banco scriveva IL 13. Sono riuscito ad apprezzarlo anche in quei frangenti, così complicati e quasi “mistici”, mentre con un pezzetto di carta e una matita, appoggiato a uno spigolo del tavolino di fronte a una vetrata, scriveva i testi dei brani… e poi li rileggeva e li cantava nella testa… e poi li cantava veramente. Di tanto in tanto si girava e diceva: “A Vitto’ che dici. Te piace?!”… “A Rodo’, prova un po’ a mettece ’na chitaretta”. Ecco, lui era fatto così. Era uno leggero perché tutto gli scorreva lieve, e anche un disco, che è una cosa davvero impegnativa, gli scorreva lieve addosso. Gironzolava per le stanze, alzava gli occhi, si fermava, ripartiva, cantava, ti guardava: “A Sandri’, che dici? Po’ annà!?!?”. E io rispondevo: “A France’, ma io…. ma che ne so, mica faccio l’artista”. Lui a quel punto, dietro la sua barbona, se la rideva pacifico e sereno come una laguna. So, per certo, che tanta gente che lo ha conosciuto potrebbe raccontarvi altrettanti aneddoti e momenti di vita, potrebbe raccontarvi più e meglio di me quell’essere umano che viveva forte dentro i suoi occhi. Aveva quegli occhi che ti spiazzavano, perché erano pieni di musica, pieni di gesti accennati, di sorrisi quasi nascosti per la tanta timidezza che esprimevano. Tutti se lo coccolavano come fosse uno di famiglia, perché lui ti ci faceva sentire uno di famiglia, anche se ti incrociava con un semplice sguardo. Solo le persone molto pulite riescono in questo difficilissimo gesto. Mi piaceva quell’uomo, perché era uno che veleggiava.