SOGNI E REALTÀ
MAURIZIO MASI È STATO PER 20 ANNI IL BATTERISTA DEL BANCO E HA PARTECIPATO ALL’INCISIONE DELL’ALBUM LA PARTE MANCANTE DI FRANCESCO DI GIACOMO.
Si partiva dal solito posto, Colle del Pero, Zagarolo, casa di Francesco. Il mio stato d’animo era simile a quando andavo in vacanza, un po’ perché andavo a suonare, il mio sogno da bambino, principalmente perché si viaggiava con Big. La squadra era quasi sempre la stessa: io, Francesco, Tiziano Ricci e Carlo Di Filippo, il fonico. Francesco era sempre seduto di fianco al guidatore. Impossibile dimenticare quei viaggi. Stavamo bene insieme. Il clima era perfetto. Le risate, gli sfottò, le barzellette, la sua rassegna stampa, i suoi occhialetti minuscoli da lettura, che sistematicamente perdeva “smadonnando”, il suo cellulare, che ogni tanto squillava e lui cercava per sei o sette squilli nel suo gilet a venti tasche. Il cellulare, come la maggior parte dei supporti tecnologici, come ad esempio il navigatore, lo innervosiva parecchio; si agitava e imprecava per poi rispondere con un pacato ed educatissimo “pronto” dalla dizione perfetta. Durante i viaggi più lunghi, a tratti si addormentava, testa piegata in avanti, mento appoggiato sulla base del collo. Non ho mai capito come facesse ad addormentarsi in quel modo; a quel punto iniziava uno scherzo infantile che, io e Tiziano, con uno sguardo dallo specchietto retrovisore facevamo partire. Chi guidava faceva sbandare leggermente la macchina a destra e a sinistra per fargli ciondolare la testa di qua e di là. Lui bofonchiava nelle oscillazioni più evidenti, ma raramente si svegliava. Negli ultimi km dei viaggi di ritorno ci trovavamo spesso io e lui; parlavamo delle nostre vite, per me ogni volta era come un giorno di scuola. Imparavo un mare di cose da Francesco durante quelle lunghe chiacchierate. La sua cultura, il suo spessore come essere umano, la sua ironia, la sua genialità e la sua esperienza mi hanno fatto crescere come uomo, come il suo saper ascoltare. Francesco era capace di ascoltare come poche persone ho conosciuto nella vita, e questa capacità di entrare nelle tue esperienze, nella tua vita, nei tuoi problemi come fossero i suoi era una delle sue qualità più incredibili. Quando insieme decidevamo di partire subito dopo il concerto, senza fermarci a dormire, arrivavamo a casa anche alle quattro o alle cinque del mattino… distrutti, stanchissimi. Riprendevo la mia macchina, caricavo le mie cose, salutavo Francesco, i suoi cani, la sua casa e ripartivo, ogni volta con un qualcosa in più nel cuore. Sarebbe scontato parlare di Francesco Di Giacomo come artista, durante i concerti. Conosciamo tutti la sua presenza scenica, il suo carisma, la sua potenza vocale… Invece vorrei raccontare il punto di vista di chi era seduto sullo sgabello della batteria, il mio. Per venti anni gli ho guardato le spalle… Nei concerti del Banco, le parti strumentali erano molte e in diversi momenti Big non rimaneva in scena; si sedeva vicino a me sulla pedana della batteria, ascoltandoci. Credo che la batteria lo affascinasse particolarmente. Avvertivo il suo sguardo addosso, quando mi giravo verso di lui mi faceva un cenno, come per chiedermi se andasse tutto bene. Era una sicurezza, lo è stato specialmente nei primi anni di tour, quando mi serviva di più. Mi inorgogliva vedere i suoi sguardi di approvazione, che mi spronavano a dare il massimo e migliorare. Della batteria lo attraevano anche tutte quelle viti, tiranti, pelli, legni, metalli, supporti e molle. Era fissato per i lavori manuali ed era geniale anche in quel campo. Ricordo che inizialmente suonavamo Tremila, incluso su IL 13. Durante questo brano io utilizzavo un tamburello, avvitato sull’asta del charleston, che percuotevo con le bacchette. La dinamica era “tosta”, quindi gli “menavo” abbastanza, tanto da piegarne il metallo del cerchio. Francesco lo prese e me lo riportò il giorno dopo con una piccola struttura in metallo saldata al tamburello, che partiva dal cerchio e scendeva in diagonale poggiata e ancorata a vite alla base dell’asta: un lavoro geniale, da brevettare! Potevo colpirlo quanto volevo ma la struttura era perfetta, equilibrata e così mi è durato vent’anni. Ancora oggi, quando mi capita tra le mani, lo pulisco, lo monto sull’asta, lo suono… penso alle sue mani che lo costruiscono, lo migliorano, lo rendono forte e resistente… poi penso alla fortuna che ho avuto a condividere con lui un pezzo di strada.