FRANCESCO…
DAL 1971 IN POI LA VITA DI BIG E VITTORIO NOCENZI È STATA FORTEMENTE LEGATA, ANCHE NEI MOMENTI IN CUI IL BANCO SEMBRAVA ADDORMENTATO.
La celebrazione di qualcosa o di qualcuno corre sempre il rischio di scadere nella retorica. Io credo che sia per questo motivo che Francesco è stato sempre allergico alle celebrazioni, agli anniversari, ai clamori… E mi ha trovato inevitabilmente sulla stessa lunghezza d’onda. Per cui mi ritrovo un po’ impacciato nel parlare di Francesco Di Giacomo. Lo farei più volentieri in privato che in pubblico, perché ho un pudore, evidentemente anacronistico, riguardo i miei sentimenti, visti i tempi attuali che premiano soprattutto esibizionismo e voyeurismo, e preferisco ancora viverli dentro di me piuttosto che esibirli. Però mi dicono che, quando si è “personaggio pubblico”, non ci si può rifiutare di concedersi alla gente che gli ha voluto bene. Per me parlare di Francesco è parlare dei miei sentimenti più privati, intimi… Cercherò il modo più adeguato di farlo e il più spontaneamente possibile. Poche persone ho conosciuto nella mia vita dotate di un senso dello humour più spiccato, di un’autoironia sempre attiva, di una prontezza nell’improvvisare battute al fulmicotone esilaranti, irresistibili. Il suo funerale lo aveva sempre immaginato come una grande festa collettiva, fra risate e cin cin. Alla fine non è stato così… un giorno tristissimo dove il dolore più profondo la faceva da padrone. C’è stato però il brindisi in suo onore, con del gran vino bianco, perché il “barone” Di Giacomo era un grande “chicchettone”… quando gli andava, sapeva essere elegante come pochi, ma solo quando gli andava e non quando gli era richiesto dalle circostanze! In questi casi, altrimenti, sapeva essere trasandato nel look come un vero clochard! Diresti un bastian contrario per antonomasia! Nella realtà era semplicemente un anticonformista incallito, per natura e per scelta personale. Non è un caso che uno dei brani che amava interpretava con più trasporto, oltre alla seconda parte di R.I.P., era il momento in cui, durante l’esecuzione di Canto nomade per un prigioniero politico, cantava le quattro note conclusive che dicono: “Io sono nato libero”! Conoscendolo, ogni sera in quel momento sentivo e riconoscevo il suo trasporto speciale, come se fossero qualcosa di profondamente “suo”, identitario. Un’altra sua caratteristica era l’attenzione e l’interesse verso quei casi di corruzione, d’iniquità sociale, di cui parlavano i media. Era profonda l’indignazione che riusciva a provare quando venivano svelati casi di disuguaglianze sociali reiterate, di ingiustizie o di favoritismi clientelari. L’ambito sociale era qualcosa che sentiva molto, e fra di noi si parlava tanto e spesso di queste cose. Che ci puoi fare? Il ’68 ti entra nel DNA! Poi tutto diventava versi e musica, poesia e composizione. Il ricorso alla metafora nei testi del Banco ci ha sempre consentito di non rinunciare a fare poesia, o almeno a cercare di farla, e allo stesso tempo di parlare dei valori della vita sociale, di quei valori ideali che oggi sembra siano sempre più ai margini dell’immaginario collettivo, sostituiti da un materialismo consumistico miope e autodistruttivo, che dimentica l’importanza centrale degli ideali, senza il cui valore il disagio del vivere sarà sempre più angosciante…
«Quando cantava le parole finali di Canto nomade sentivo e riconoscevo il suo trasporto speciale, come se fossero qualcosa di profondamente “suo”, identitario» Vittorio Nocenzi