Thick as a Brick
Già sul finire degli anni Sessanta e nei primi Settanta diverse band, per ampliare il respiro della tradizionale forma canzone e per dare maggiore risalto alla propria perizia tecnica, avevano riempito una facciata dei loro album con una suite, cioè un’uni- ca, lunga composizione, mutuata dalla musica classica, in cui diversi brani venivano legati tra loro da passaggi strumentali, mentre le liriche trattavano un tema unico, magari diviso in capitoli. Con THICK AS A BRICK, pubblicato nel febbraio del 1972, i Jethro Tull andarono persino oltre, realizzando un’unica suite di 43 minuti, divisa sui due lati dell’lp. Dietro questa scelta, però, si celava in realtà un intento parodistico: la finalità è evidente soprattutto nel testo, che si finge sia stato scritto da un bambino di otto anni, Gerald Bostock, vincitore di un concorso letterario, ma poi squalificato perché il poema costituiva un feroce attacco alla società borghese britannica. A raccontarci tutta la grottesca vicenda è la straordinaria copertina dell’album a forma di giornale, il «St. Cleve Chronicle», dodici pagine di articoli strampalati, cruciverba, oroscopo, programmi televisivi, cronache sportive, persino una recensione dell’album, il tutto inventato e scritto da Ian Anderson, dal bassista Jeffrey Hammond-hammond e dal tastierista John Evan, in perfetto stile Monty Python.
La facciata A si apre con una dolce ballata acustica, in cui al tema cantato si alterna un’allegra melodia di flauto, tanto delicata e gioviale quanto le parole sono invece affilate e caustiche: “Davvero non mi importa se questa la saltate, le mie parole sono un sussurro, la vostra sordità un URLO”, e poi: “Posso farti emozionare ma non posso farti pensare, il tuo sperma è nello scarico, il tuo amore nel lavandino…”, e ancora: “Così cavalchi sui campi per accoppiarti come un animale, e i tuoi saggi non sanno come ci si sente ad essere ottusi come un mattone”. Ed ecco qui spiegato il titolo: Thick as a Brick è un’espressione proverbiale dell’inghilterra del Nord che significa letteralmente “duro come un mattone”, vale a dire ottuso, sciocco. Il bersaglio dell’invettiva satirica, come detto, è la borghesia inglese, rigida e bacchettona, colpevole di aver irretito i suoi rampolli nelle oppressive strutture educative e clericali fin da bambini e nelle spietate leggi del liberismo capitalista di stampo americano una volta diventati adulti. Finita la prima parte acustica, dopo una brusca interruzione, su un tempo in 5/4, esplode con ferocia il sarcasmo del movimento successivo: “Guarda! È nato un figlio e lo dichiariamo pronto per combattere. Ha i punti neri sulle spalle e si fa la pipì addosso di notte. Ne faremo un uomo, lo metteremo in affari, gli insegneremo a giocare a Monopoly e a cantare sotto la pioggia”. Dopo un funambolico assolo di Evan all’organo Hammond e la risposta di Martin Barre alla chitarra elettrica, un breve giro di chitarra acustica ci riporta agli staccati iniziali, fino a un misterioso e inquietante accordo all’unisono che chiude la seconda sezione. Una marcia sul rullante e delle stentoree note di basso introducono la terza sezione, in cui un giro ascendente di accordi minori e maggiori e una marcia cadenzata dal basso e dalla batteria fanno da accompagnamento al cantato di Anderson: “E il poeta alza la sua penna, mentre il soldato ripone la sua spada”, come a dire “la penna ferisce più della spada”. Nella successiva evoluzione strumentale, probabilmente scaturita da un’improvvisazione di gruppo, si rispondono, come in un duello, due soli di chitarra elettrica, missati sui due opposti canali, fino all’accelerazione in 2/4, dove è il potente e fantasioso drumming di Barriemore Barlowe (subentrato a Clive Bunker già dal maggio del 1971) a salire sugli scudi. Dopo un’altra strofa cantata, uno stacco classicheggiante dell’organo ci introduce alla quarta sezione, una giga dal sapore tradizionale che rappresenta una delle parti più famose dell’album, ancora oggi eseguita dal vivo. Il ragazzo è diventa
to ora adulto e arrogante come il padre che ha sostituito: “Sono sceso dalle classi alte per aggiustare le vostre rozze maniere. Mio padre era un uomo di potere cui tutti ubbidivano” – “Quindi forza criminali! Vi metterò tutti in riga, come feci con il mio vecchio… con venti anni di ritardo”. Dopo l’intermezzo acustico, che sembra una filastrocca per bambini, una scala discendente del pianoforte, su cui si innesta anche il basso, ci introduce all’ultima sezione del primo lato, che, sorretta da due accordi in maggiore suonati dalla chitarra acustica, rappresenta una sorprendente apertura, solare e liberatoria, nonostante il sarcasmo delle parole: “E allora forza eroi dell’infanzia! Perché non uscite dalle pagine dei vostri fumetti, con i supercattivi, per mostrarci la via da seguire… Abbiamo Superman come Presidente, lasciate che Robin ci salvi la giornata”. Sugli ultimi giri, Ian Anderson ci regala uno dei suoi magistrali assoli di flauto e mentre la canzone finisce sfumando, di colpo irrompono tre deflagranti note suonate all’unisono, fino a quando un effetto elettronico, che sembra una tempesta magnetica, ci trasporta dalla prima alla seconda facciata.
La tempesta diventa vento, le tre note all’unisono vengono ora suonate più lentamente e sembrano i passi di un gigante che si avvicina. Improvvisamente irrompe in maniera più violenta che mai il tema in 5/4: “Guarda! È nato un uomo e lo dichiariamo pronto per la pace …. Prenderemo il bambino che è in lui, lo metteremo alla prova, gli insegneremo a essere un uomo saggio e a prendere in giro tutti gli altri”. La sezione è inframezzata da due pirotecnici assoli di batteria in tempo ternario, in cui Barriemore Barlowe dà prova di tecnica e velocità sui tamburi. L’ultima ripresa del 5/4 si dissolve in una specie di improvvisazione free, su cui si innestano delle strane frasi parlate: “Dio è una responsabilità schiacciante…”. Il brano sembra spegnersi nel silenzio, ma il silenzio viene rotto da un colpo di piatto, e poi altre frasi senza senso: “Attraversando il reparto maternità ho visto 218 bambini indossare calze di nylon…”; la musica si spegne ancora, due colpi di piatto, riprende, si spegne ancora, stavolta tre colpi di piatto e irrompe di nuovo l’arpeggio iniziale, ma con una variazione sul tema in cui il testo e la musica sembrano descrivere le memorie di un glorioso passato, oggi sbiadito nella meschinità del presente: “E i soldati dagli occhi blu si stanno un poco scolorando… Mentre fanno la coda per un panino alla mensa dell’ufficio…”. Un altro passaggio, con gli staccati all’unisono comandati dall’organo, introduce una sorta di litania liturgica che sembra emergere dal medioevo inglese: “Le leggende (formulate nell’antico rito tribale) giacciono cullate dal canto dei gabbiani. E tutte le promesse che ci hanno fatto si sono sgretolate sotto la caduta del sadico…”. Ora la chitarra acustica di Anderson arpeggia contrappuntata dal liuto di Barre, mentre il flauto, distorto e con il vibrato, esegue una lugubre melodia a tinte fosche, che ci introduce nella parte più oscura, quasi macabra, dell’album, una sorta di marcia funebre per l’insensato ottimismo borghese. “Credi nel giorno?”, canta Ian Anderson, mentre Evan disegna un tetro e magnifico fraseggio, prima al clavicembalo e poi all’organo. Una nuova cadenza viene scandita da tutti gli strumenti, partendo prima pianissimo, quasi come uno scherzo, poi l’intensità cresce con il ripetersi dei giri, mentre il flauto distorto con il vibrato aleggia come un gabbiano impazzito e la chitarra di Martin lancia note acute lancinanti. L’ennesimo passaggio di flauto e organo segna il ritorno alla realtà nel nuovo movimento: “Lasciami raccontare le storie della tua vita”. Sono ancora i giovani rampanti dell’alta borghesia a fare da bersaglio alle invettive di Ian Anderson, mentre il brano, tra evoluzioni strumentali, stacchi e riprese, viene come risucchiato dal ritorno della sezione dei Childhood Heroes, ma è tutta l’ultima parte della suite a essere costruita su citazioni e rimandi delle sezioni precedenti; intervengono anche gli archi dell’orchestra (arrangiati da David Palmer) prima che tutto ritorni all’arpeggio iniziale, e ai saggi che non sapevano come ci si sentisse a essere “duri come un mattone”.
«Il bersaglio dell’invettiva satirica di Thick as a Brick è la borghesia inglese, rigida e bacchettona»