Guida all’ascolto
BEAT viene pubblicato il 18 giugno del 1982 su etichetta E.G. e come DISCIPLINE è prodotto da Rhett Davies (Camel, Talking Heads, Roxy Music, Bryan Ferry, B-52s). L’artwork di Rob O’conner, che aveva già collaborato con Fripp per THE LEAGUE OF GENTLEMEN e LET THE POWER FALL, mantiene l’approccio minimalista del disco precedente: i credits e la trackliford st sono nuovamente posizionate sul retro della copertina, ma questa volta i testi delle canzoni, assenti in DISCIPLINE, sono stampati sulla busta che ospita il vinile. L’album raggiunge la posizione numero 39 delle classifiche britanniche, facendo leggermente meglio del disco precedente, che si era fermato al numero 41. Heartbeat viene pubblicata come singolo insieme a Requiem, senza però riscuotere particolare successo.
LATO A
1. Neal And Jack And Me – 4’23’’ La prima traccia di BEAT risale in realtà alle session di registrazione di DISCIPLINE: non a caso viene proposta dal
vivo dal gruppo con contnuità già a partire dall’ottobre del 1981. Musicalmente, si tratta del ponte ideale tra i due dischi: l’intreccio di chitarre iniziale infatti ricorda molto da vicino quello di Discipline, brano con cui si chiudeva il lavoro precedente. Questa volta però non siamo in presenza di uno strumentale, ma di una canzone vera e propria. Fin dal titolo emerge in maniera inequivocabile la fonte di ispirazione per le liriche di Adrian Belew: Neal e Jack sono ovviamente Neal Cassady e Jack Kerouac, due tra gli alfieri della beat generation. I riferimenti nel testo proseguono con l’immagine di una Studebaker coupe del 1952 e la citazione in francese dei titoli di alcune opere di Kerouac: On the road, The Subterraneans, Visions of Cody, Satori in Paris. Poi, come in un film, lo scenario cambia improvvisamente: eccoci catapultati nel presente, dove entra in scena proprio Belew (il “Me” del titolo), che sfoga la sua frustrazione per la vita “on the road”, tra concerti che si susseguono implacabili giorno dopo giorno, strani piatti di spaghetti, notti insonni, nostalgia di casa, spuntini fin troppo frugali, lunghe telefonate transoceaniche. Il calvario raggiunge la sua estasi nella visione solitaria della Senna (“Seine”) alle quattro di mattina: la Seine diventa (in)seine, insana, ma il giorno dopo la musica riparte ogni volta inesorabile, come i musicisti alla fine di ogni esibizione. Neal And Jack And Me è un pezzo affascinante e perfettamente bilanciato, caratterizzato dalla tipica sfasatura metrica tra le chitarre e la sezione ritmica – l’intreccio chitarristico in 5/4 si appoggia su un tempo in 4/4 – che abbiamo imparato ad apprezzare proprio su Discipline. Forse il punto più alto raggiunto dai King Crimson degli anni Ottanta.
2. Heartbeat – 3’55’’
La sorpresa del disco è rappresentata da questa “canzoncina” pop a tema amoroso, che Belew scrive e propone al gruppo, ma che finisce per creare non pochi grattacapi agli altri musicisti: Bruford sbatte la testa contro il 4/4 che muove il pezzo, senza riuscire a elaborare nulla di particolarmente elettrizzante, mentre Fripp si limita a un (delizioso) solo di chitarra. “Heartbeat è un classico pezzo alla Belew; purtroppo i King Crimson non erano la formazione migliore per valorizzare una composizione del genere, e mi riferisco soprattutto ai due inglesi del gruppo. L’assolo di chitarra arranca e non è certo memorabile. Oggi se mi trovassi in una situazione del genere avrei il coraggio di ammettere di non essere in grado di contribuire in alcun modo e mi chiamerei fuori”1. E allora perché questa canzone è stata inserita nell’album? È probabile che la E.G. abbia fatto pressioni per avere almeno un singolo da promuovere: non a caso, di Heartbeat venne realizzato anche un videoclip, con Belew protagonista e gli altri musicisti che fan
no la loro apparizione come comparse. Secondo il manager Paddy Spinks, fu proprio Adrian a insistere che la sua canzone fosse utilizzata nel disco. Fatto sta che qualche anno dopo il chitarrista ne registrerà una nuova versione per il suo album solista YOUNG LIONS (1990), a testimonianza di quanto tenesse a quel brano. Nonostante il testo non abbia apparentemente nulla a che fare con la beat generation, il titolo del pezzo è evidentemente una citazione di quello del romanzo autobiografico di Carolyn Cassady (Heart Beat, 1976), poi diventato film nel 1980 con Nick Nolte, Sissy Spacek, John Heard e la regia di
John Byrum.
3. Sartori In Tangier – 3’35’’ Iniziamo dal titolo, che come fa giustamente notare il buon Nicola Leonzio presenta una imprecisione, “sartori”, con la “r” invece di “satori”, il risveglio spirituale nella pratica del Buddismo Zen. “Non saprei dire se il refuso di Sartori In Tangier sia volontario o meno; di un refuso indubbiamente si tratta, dato che allude al risveglio buddista (satori) che Kerouac credette di sperimentare nel corso di un viaggio in Francia, mentre errava in cerca delle proprie radici di franco-canadese tra Parigi e la bretone Brest. La erre in più non è mai stata corretta nelle edizioni successive di BEAT, forse perché ormai il brano era stato depositato con quel titolo”2. Tangeri è ovviamente la città portuale marocchina: in questo caso la connessione con la letteratura beat è data dal soggiorno in città di William Burroughs, poi raggiunto anche da Kerouac e Allen Ginsberg; ma non dobbiamo dimenticare che a Tangeri è ambientato anche il romanzo di Paul Bowles The Sheltering Sky (1949), che dà il nome alla seconda traccia di DISCIPLINE. Rimanendo in ambito linguistico e letterario, mi ha sempre colpito la presenza nel titolo delle due lettere “ng”, che riporta alla mente il “talking” di The Talking Drum e le “tongues” di Larks’ Tongues In Aspic. Non a caso nei concerti del 1981 e 1982 Sartori In Tangier veniva spesso eseguita prima di Larks’ Tongues In Aspic – Part 2, come a voler ricreare quella particolare sequenza datata 1973. L’incedere del brano ricorda infatti quello di The Talking Drum: una cavalcata nel deserto, guidata dallo stick di Levin e dalle percussioni di Bruford, su cui Fripp si produce in due magnifici soli, caratterizzati da una timbrica simile a quella di una “tromba turca”, come ha avuto modo di affermare Belew, che curiosamente nei concerti del 1984 su questo pezzo suonerà la batteria insieme a Bruford.
4. Waiting Man – 4’24’’
Il lato A di BEAT si conclude trionfalmente con questo brano nato in studio da un pattern di percussioni elettroniche di Bruford: “Ho settato il mio kit Simmons con una timbrica simile a quella di una log drum o alle note basse di una marimba e ho iniziato a suonare esattamente il pattern di apertura. Poi è arrivato Tony Levin e ha aggiunto una parte con il Chapman Stick che dialogava armonicamente con la mia parte di percussioni. Alla fine si sono uniti a noi anche gli altri musicisti. Devo ammettere che sono molto orgoglioso del risultato che abbiamo ottenuto”3. La chiave della riuscita di questo pezzo è dovuta indubbiamente all’utilizzo tonale della parte percussiva, un percorso che Bruford svilupperà ulteriormente con i suoi Earthworks tra il 1987 e il 1991. Il testo della canzone prosegue nella descrizione della psiche del musicista durante le lunghe tournée del gruppo, mettendo a nudo la profonda nostalgia di casa e la voglia di tornare ad abbracciare i propri cari, la lunga attesa e l’abbandono a un pianto liberatorio. Nel 1982 Waiting Man viene utilizzata come pezzo di apertura dei concerti, estesa a quasi nove minuti di durata, con Bruford e Belew che suonano entrambi le percussioni elettroniche: i due condividono la stessa postazione al centro del palco, faccia a faccia, incrociando con destrezza le bacchette in una sequenza dall’effetto estremamente coreografico.
LATO B
1. Neurotica – 4’49’’
La seconda facciata di BEAT ci catapulta brutalmente nell’atmosfera caotica di New York, tra sirene urlanti, colpi di clacson e fischi assordanti. Il testo, scritto da Belew guardando fuori dalla finestra durante una notte al Plaza Hotel, è un bestiario in cui uomini e donne assumono curiose e calzanti sembianze animalesche: “New York mi ha sempre disorientato. Con la sua passione febbrile e l’energia indefinita, a volte può sembrare il posto più desolato del pianeta. Una notte non sapevo dove andare e non avevo nessuno con cui parlare. Ero seduto nella mia stanza al quinto piano del Plaza, guardavo giù in quel movimentato punto di incontro di persone nei loro fallimenti teatrali, il taxi strombazzava, la costante marea di personaggi eccentrici e New York mi sembrava davvero una giungla di asfalto. Vidi una donna vestita di leopardo, poi un tizio con un sorprendente cappello di pavone, così cominciai ad assegnare attributi animali ai soggetti che vedevo, appuntando tutto sul mio blocchetto. Feci il mio meglio da poeta beat, con tanto di flusso di coscienza. Terminai grosso modo alle tre di mattina, ma avevo il testo di Neurotica”4. Il brano è già presente in scaletta nella seconda parte del tour di DISCIPLINE, ma in versione strumentale e con il titolo provvisorio di “Manhattan”: in questo primo arrangiamento la partitura di percussioni di Bruford è molto simile, sia dal punto di vista timbrico che strutturale, a quella di Thela Hun Ginjeet; probabilmente è l’inserimento della voce recitante da parte di Belew a spingere il batterista a virare su un accompagnamento dal taglio free jazz, che conferisce al pezzo una fragranza completamente inaspettata e differente rispetto a quanto prodotto in precedenza. In questo caso il legame con il filo conduttore dell’album è garantito dal titolo stesso della composizione: «Neurotica» era infatti il nome della rivista fondata da Jay Landesman nel 1948 e diventata rapidamente “la voce della Beat Generation”.
2. Two Hands – 3’24’’
Un’altra canzone d’amore di Adrian Belew, anche se le parole sono della moglie Margaret. Un brano inserito nella tracklist più per necessità che per convinzione, come ha avuto modo di confermare Fripp nel 2001: “Semplicemente, non
avrebbe dovuto far parte dell’album. Ma se avessi espresso il mio parere all’epoca, probabilmente avrei causato lo scioglimento del gruppo”. Le timbriche dei vari strumenti ricordano molto da vicino quelle già utilizzate per The Sheltering Sky e questo non fa che minare ulteriormente l’originalità del brano. Two Hands è stata remixata in occasione della pubblicazione del box ON (AND OFF) THE ROAD nel 2016.
3. The Howler – 4’12’’
Un altro gancio alla beat generation: il dirompente poema Howl (1956) di Allen Ginsberg è infatti considerato uno dei manifesti del movimento, oltre a essere stato oggetto negli Stati Uniti di un procedimento giudiziario per oscenità. In qualche modo l’atmosfera disturbante che si respira nell’opera di Ginsberg avvolge anche The Howler, sia nella parte testuale che in quella musicale, a cominciare dalla sciamante sequenza iniziale in 5/4 che si ripete minacciosamente durante e alla fine del brano. Esattamente a metà strada, una variazione molto cadenzata sembra mettere in contatto i King Crimson con le sonorità di stampo “discotronics” sperimentate da Fripp in UNDER HEAVY MANNERS nel 1980. Poi arriva l’assolo brutale di Belew, cinquanta secondi di sfogo rumoristico: “Non ho suonato neanche una nota in quel solo, neanche una singola nota. È qualcosa di orrido, di meccanico, che ricorda il suono delle unghie di un topo su una lavagna. L’elemento noise è indubbiamente predominante, anche perché la chitarra era filtrata attraverso un harmonizer accordato mezzo tono più in basso e per suonare non ho utilizzato le dita ma ho percosso le corde con uno slide di metallo”5. Il testo della canzone è figlio illegittimo dell’estetica beat: visionario, notturno, contorto, inquietante: “l’acida metropolitana” riporta alla memoria le peripezie del Rael gabrielliano, “l’angelo dei desideri del mondo sottoposto a processo” richiama perlomeno per assonanza il tragico protagonista di Fallen Angel. La fiamma si avvicina mentre Belew urla il suo rifiuto a un destino che appare ineluttabile, condensato nello stridente tema tribale che si ripete per l’ennesima volta. Horror music? Eppure Fripp non sembra particolarmente entusiasta: “È un brano che non mi convinceva all’epoca e non mi convince oggi. C’è dentro tutta la difficoltà di comporre direttamente in studio, senza aver avuto l’opportunità di testare il materiale dal vivo prima di inciderlo. All’interno del pezzo ci sono delle buone idee, che però non hanno avuto il tempo necessario per maturare e trovare la loro giusta collocazione”6.
4. Requiem – 6’37’’
Uno sguardo al cronometro: appena ventinove minuti. Il gruppo non ha più altro materiale, ma c’è la necessità di avvicinarsi ai quaranta minuti complessivi per poter chiudere l’album. Nessuno ha voglia di mettersi a comporre direttamente in studio e così la band decide di provare a registrare un’improvvisazione. I primi due minuti sono occupati da un loop di Frippertronics, su cui Fripp si produce in un assolo che si dispiega ondivago e privo di punti di riferimento; poi entrano in scena gli altri musicisti. Bruford conferisce dinamica al pezzo, prima accompagnando con i soli piatti, poi abbozzando un tempo sul rullante, infine percuotendo i tamburi con una foga sempre cre6. Robert Fripp in Sid Smith, In the Court of King Crimson, Helter Skelter, 2001, pg. 240. scente. La Simmons rimane scollegata, i rototom e i timbales non vengono toccati: il set è completamente acustico, in pratica un ritorno al passato, ai tempi di STARLESS AND BIBLE BLACK e RED. “Abbiamo registrato Requiem in un unico lunghissimo take”, ricorda Levin. “Abbiamo suonato tutti insieme, ascoltandoci in cuffia, il che ha reso il processo decisamente più complicato rispetto a quando si improvvisa sul palco. Eravamo più isolati tra noi, più distanti l’uno dall’altro”7 . Eric Tamm giustamente vede in questa traccia un’anticipazione di quello che i King Crimson realizzeranno solo molti anni dopo con THE CONSTRUKCTION OF LIGHT e THE POWER TO BELIEVE. Ma il titolo scelto per il brano non è casuale: durante il mix di Requiem si consumò infatti l’atto conclusivo della “guerra fredda” che Adrian e Robert stavano portando avanti da quando erano cominciate le sessioni di registrazione. I due chitarristi iniziarono a sovraincidere nuove parti, l’uno all’insaputa dell’altro, fino a quando Belew non intimò a Fripp di lasciare lo studio, cosa che portò a una frattura apparentemente insanabile. “Era come se il primo ufficiale avesse obbligato il capitano a lasciare il ponte. Robert se ne tornò immediatamente nel Dorset e se ne stette in silenzio per tre giorni. I due uomini che erano maggiormente interessati a mantenere a galla la nave – ovvero il manager e il batterista – si fecero in quattro. Partirono una raffica di lettere, telefonate, visite e scuse ufficiali. Alla fine il capitano fu ricondotto a bordo e tirammo tutti un sospiro di sollievo”8. Tutti tranne lo stesso Fripp: per lui il gruppo si era ormai sfaldato e quei sei minuti di spettrale improvvisazione immortalati su nastro erano di fatto la sua messa da requiem.
7. Tony Levin in Sid Smith, In the Court of King Crimson, Helter Skelter, 2001, pg. 241.
8. Bill Bruford, The Autobiography, Jawbone Press, 2009, pg. 159.