E sul palco?
QUATTRO MUSICISTI RACCONTANO LA LORO ESPERIENZA SUL PALCO DI “VILLA PAMPHILI ‘72”, SONO SOLO UNA PICCOLA PARTE DI QUELLA SCHIERA DI RAGAZZI CHE HANNO CONSEGNATO QUEI TRE GIORNI ALLA LEGGENDA…
Luciano Regoli (Raccomandata Ricevuta di Ritorno)
Dal nostro furgone dietro al palco, che usavamo per cambiarci, la musica arrivava forte e rimbombava come in un tunnel. Eppure io, che ero in compagnia di due bellissime ragazze, non ci facevo quasi caso. D’altronde non ci rendevamo nemmeno troppo conto che quel Festival sarebbe entrato nella storia del rock italiano. Per noi era un concerto importante, sì, ma come tutti gli adolescenti, poiché questo eravamo noi della RRR, ragazzini di 16/17 anni, avevamo anche “altre” distrazioni. Il bassista Paolo Bencivenga, detto Paolone per i due metri e cinque di altezza, vestito come un corsaro con stivaloni fino al ginocchio e tatuato in faccia con mille fiori, era indaffarato a “iniziare” il nostro flautista e sassofonista, Damaso Grassi ai misteri Eleusini… Francesco Froggio Francica, il batterista, sarebbe arrivato solo poco prima di salire sul palco, sciampato e profumato come voleva il suo “lignaggio”. Il “Corvo”, Stefano Piermarioli, preoccupatissimo come al solito, si allenava al pianoforte fuori dal furgone. Il bassista Nanni Civitenga, giovanissimo ma il più responsabile fra noi, aspettava che fosse il nostro turno… io intanto andavo avanti con il mio interesse principale, ovvero le due mie amiche J.
Noi non ci rendevamo conto di quale importanza avesse quel festival. Intanto arrivava gente di ogni specie. Vecchiette con la spesa, che curiose chiedevano: “Che c’è ’na festa?”. Giovani dalle borgate si riversavano nei prati e sotto il palco, ma tutto era molto spontaneo e casareccio. Era l’occasione per stare insieme e contarci, come era successo l’anno prima a Caracalla, dove partecipai con il Ritratto di Dorian Gray, ma qui c’era più gente e aumentava sempre di più. Salimmo sul palco e suonammo alcuni brani di PER… UN MONDO DI CRISTALLO, che avremmo inciso in autunno alla Fonit Cetra di Torino. Eravamo insieme solo da tre mesi e già il nostro manager Pino Tuccimei, che ci aveva inventato, ci dava l’occasione di farci sentire da un pubblico così vasto. Prima attaccammo con L’ombra, poi Un palco di marionette, ma, poiché il repertorio non era ancora a punto, ci infilai una cover di International Messenger, brano di apertura dell’album GALACTIC ZOO DOSSIER (1971) dei Kingdom Come di Arthur Brown… nel caos generale forse non se accorse nessuno. Era il secondo giorno del festival, il primo ce lo eravamo perso, indaffarati come lo sono i teenager, il terzo pure poiché dovevamo suonare in un altro posto. Quella serata ci rese piuttosto popolari e ci aprì le porte a un anno e mezzo glorioso di concerti in tutta Italia. La Fonit ci trattava con i guanti inviandoci al Pop Festival di Palermo in aereo e nei migliori alberghi. Era iniziato il business per le case discografiche, che facevano soldi sulle nostre spalle, e a noi rimanevano le gioie di suonare in giro, le cambiali degli strumenti da pagare e la gioventù, che non ci avrebbe più abbandonato neppure da vecchi. Anche se “la parola non è la cosa”, e noi non potremo mai comunicare alle giovani generazioni l’ardente gioia di vivere di quegli anni, quei ragazzini di allora non invecchieranno mai, e solo chi mi intende sa cosa dico. Non invecchieranno mai!
Carlo Bordini (Cammello Buck)
In parte ho contribuito alla storia di questo festival. Mi trovavo a Caracalla pop ‘71, dove tra l’altro suonava Stefano D’orazio con Il Punto, ricordo la sua batteria Ludwig bianca con due casse, una marea di tom e tre rullanti… vicino a me c’era Giovanni Cipriani, che mi disse che gli sarebbe piaciuto spostare il festival in un altro posto: “Secondo te dove potremmo farlo?”, al che io suggerii villa Pamphili. L’anno seguente questo consiglio diventò realtà.
Per partecipare al festival con i Cammello Buck, formati da Paolo Rustichelli (tastiere), Pino Belardinelli (chitarra), Mauro Morlacchi, detto Pennellone (basso), oltre che da me (batteria), contattammo Pino Tuccimei. Riuscimmo a suonare, anche se dovemmo pagare un “rimborso”. Suonammo
pomeriggio e la performance andò bene, anche se c’era poco pubblico, perché i big erano attesi per la sera. Sicuramente si respirava un’aria molto diversa da quella attuale. Noi andavamo a tutti i concerti del Palasport, e, anche sulla scia creata da raduni come Woodstock, si percepiva grande libertà, voglia di fare e di stare insieme. Eravamo giovanissimi e partecipare a un evento del genere ci entusiasmava. Rimasi fino alla fine ad ascoltare il festival, soprattutto per i Van der Graaf Generator. Alla fine mi intrattenni con il loro batterista (Guy Evans), che mi regalò un paio delle sue bacchette. Mi è rimasta particolarmente impressa l’esibizione del Banco del Mutuo Soccorso e le parole di Francesco Di Giacomo per stigmatizzare il comportamento del pubblico, che lasciava cartacce e immondizia sul prato: “Lo spettacolo è finito, se ne va il pupazzo, cala il sipario, e buonanotte a tutti”. Fu un evento epocale e mi sento privilegiato per avervi preso parte. Sarebbe interessante riproporre oggi un evento del genere.
Pericle Sponzilli (Fholks)
Ultimamente mi è capitato di leggere dei concerti dei VDGG in Italia nel 1972. Il 20 maggio con i Fholks abbiamo aperto quello al Palazzetto dello sport di Pesaro, solo pochi giorni prima di “Villa Pamphili”. La cosa curiosa è che di Pesaro ho tantissimi ricordi, mentre di Roma solo qualche immagine sbiadita. Suppongo che principalmente questo sia dovuto al fatto che al Palasport suonammo benissimo mentre non fu così al festival. Come mai? Credo dipese dalla differente situazione tecnico-logistica. A Pesaro c’era un palco a misura d’uomo. Avevamo la nostra strumentazione e un impianto che probabilmente seguiva i VDGG e ascolti fantastici. A Roma c’erano amplificatori e impianto Mack, costruiti e dati in dotazione da Cherubini. Tanta potenza ma poca qualità. Inoltre non ricordo ascolti spia su quel palco enorme, dove gli amplificatori erano posizionati troppo lontani tra loro. Non so se nei giorni seguenti fu raddrizzato il tiro ma certo, avendo suonato noi nel pomeriggio del 25, fummo tra i primi a sperimentare il palco. Detto questo, senz’altro eravamo un gruppo che vendeva cara la pelle… anche nelle situazioni difficili, che spesso in quell’epoca pionieristica si presentavano. Ce la giocavamo e cercavamo comunque di dare sempre il meglio. Non ricordo cosa proponemmo ma ricordo all’incirca la scaletta di Pesaro e dei nostri concerti di quel periodo. Suonammo senz’altro Vertigine e Padre, che avremmo registrato di lì a poco negli studi della Ricordi per l’album omonimo della Reale Accademia di Musica. I testi non erano stati messi ancora a punto ma ne avevamo costruiti sulle melodie alcuni provdi
visori in inglese, in modo di evocare l’idea del suono voluto. Presumibilmente non eseguimmo Il mattino, perché non c’era sul palco un pianoforte, quasi sicura la presenza di Delta Lady di Leon Russell, che in quel periodo era un nostro cavallo di battaglia. Avevamo imparato ad amarla in MAD DOGS & ENGLISHMEN (1970) di Joe Cocker, scritta da Russell per Rita Coolidge, sua fidanzata e cantante nella band di Cocker. Se penso al pubblico mi viene in mente che, guardando dal palco, sulla sinistra c’era una collinetta con vari gruppi di ragazzi… un po’ accampati. Li ricordo perché probabilmente fra loro c’era qualche amico, mentre non ho immagini, come sarebbe più logico, dei ragazzi sotto al palco durante la nostra esibizione. Noi volevamo proseguire con il nome Fholks ma la Ricordi, nostra casa discografica, preferì cambiare.
Maurizio Cassinelli (Garybaldi)
È difficile ricordare un fatto accaduto esattamente cinquant’anni fa. I volti, i colori, i suoni, le situazioni e le sensazioni col tempo sfumano lentamente e assumono le caratteristiche di un sogno. Ma un avvenimento musicale così importante ha lasciato in noi Garybaldi un’emozione difficile da dimenticare. A settembre sarebbe uscito NUDA (CGD), il nostro primo album, e noi eravamo ben carichi di energia e di speranze. Nel pomeriggio del concerto ricordo che il fotografo Mauro Chiari ci aveva ritratto usando il parco come sfondo. Bambi Fossati indossava un fantastico giubbino militare (alla moda di Jimi Hendrix), che avrebbe fatto invidia a qualunque rockstar. Il nostro manager allora era Pino Tuccimei, uno degli organizzatori del festival, grande persona. La nostra performance era stabilita per la sera di sabato, verso le 20 e 30, momento particolarmente importante. Io, Bambi, Angelo Traverso e Lio Marchi alla vista di quell’immenso pubblico, che riempiva non solo il grande prato davanti al palco ma anche le due colline erbose ai suoi lati, restammo parecchio confusi ed emozionati. Per fortuna, una volta saliti “on stage”, l’impianto luci nascose alla nostra vista gran parte della marea umana. Ricordo in particolare un momento magico, mentre suonavamo un formidabile blues, come Bambi sapeva fare benissimo. Era già sera e la platea si illuminò con migliaia di accendini… il pubblico voleva comunicarci che eravamo tutti in sintonia. Penso che si possa affermare che quei tre giorni siano stati un pezzo importante nella storia della musica e del costume italiani.