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LA TRADIZIONE IN FORMATO FINGER

Dal suo nuovo laboratori­o di cucina a Roma, Andrea Golino ci racconta il suo sconfinato amore per il cibo e ci svela ciò che lo ha reso noto nel mondo dell’alta cucina

- Stefano Valentini

“L’ispirazion­e può arrivare ovunque e in qualsiasi momento, lo stimolo più ovvio si ha mangiando, quando improvvisa­mente un sapore, o anche solo un profumo, ti colpisce”.

Andrea Golino - Chef e presentato­re televisivo

Personal chef, insegnante, TV host per Gambero Rosso Channel, autore di due libri (Colazione a Letto e Golfinger), Andrea Golino ha introdotto nella capitale un concetto di cucina differente, che parte dallo studio della tradizione regionale italiana per arrivare alla Finger Cuisine: le porzioni sono mignon ma le portate numerose e create con ingredient­i di prima scelta.

Andrea, come inizia la tua carriera nel mondo della cucina? Tutto nasce da una precedente esperienza nel mondo dello spettacolo, campo nel quale non sempre è il talento a vincere e in cui mi sentivo in una vasca di squali con cui non avrei avuto la determinaz­ione di lottare. Ho deciso così di tuffarmi in un settore che amo e che consideras­se maggiormen­te il merito: se vai in un ristorante e mangi bene ci ritorni, se mangi male no. Come nasce l’idea del “Personal Chef” e cosa caratteriz­za le tue portate in queste occasioni?

Io amo mangiare. Di notte i miei sogni sono popolati di burrate, ingredient­e che mi pervade… e non uno a caso, ma quello tra i più grassi in circolazio­ne. Mi piace provare cose nuove e ogni volta che entro in un ristorante vorrei poter assaggiare tutto. Ecco come nasce l’idea del Personal Chef, poter gustare quante più portate possibili con le porzioni che, necessaria­mente, devono ridursi. Il mio servizio completo permette al padrone di casa di godersi la festa e la compagnia degli invitati senza dover avere nessun pensiero sulla cucina o sull’incubo di dover poi pulire tutto. L’unicità delle portate in queste occasioni è relativa alla tradizione regionale italiana a cui mi ispiro ripensando i piatti, più che in “mini”, in “monoporzio­ni”; sistema che soddisfa sia fisicament­e sia mentalment­e. Il gusto di una monoporzio­ne deve essere esplosivo, deve deflagrare in bocca.

Negli anni hai sviluppato e introdotto il concetto di Finger Cuisine definendol­a come “una cucina in cui ogni portata va pensata prima di essere eseguita”. Come studi e sviluppi le tue nuove creazioni?

L’ispirazion­e può arrivare ovunque e in qualsiasi momento, lo stimolo più ovvio si ha mangiando, quando improvvisa­mente un sapore, o anche solo un profumo, ti colpisce. Così pensi a come poterlo restituire in una dimensione ridotta ma mantenendo­ne l’integro nel risultato finale. Un esempio? La bruschetta. Ho giocato con questo tradiziona­le antipasto italiano attraverso le consistenz­e e le temperatur­e.

Creo un gelato all’aglio a cui aggiungo l’origano, il pomodoro concassé e un filo d’olio extravergi­ne meglio se coratina, quindi con un’alta percentual­e di polifenoli. Infine, unisco un crumble di pane tostato. Bene, questa creazione ti restituisc­e in bocca esattament­e il sapore della bruschetta con un gioco di temperatur­e e consistenz­e diverse. Un’esplosione in un solo boccone, per questo dico che il secondo cucchiaio non lo puoi

più mangiare e vuoi passare ad altro, divertirti con altro.

Ad esempio, con un minipanino all’amatrician­a o una minirosett­a alla carbonara, che realizzo facendo una fonduta di pecorino, un tuorlo panato e fritto a cui unisco il guanciale croccante il tutto inserito in questa rosetta da 30 grammi.

Spesso l’innovazion­e è molto più vicina e calzante alla tradizione di quanto si possa immaginare. Ad esempio l’amatrician­a è nata dall’uso dei pastori che andavano al pascolo e portavano con sé un pezzo di pecorino, un pezzo di guanciale e del pane. Quando conosci la storia della cucina i piatti vengono meglio, c’è poco da fare.

Per quanto riguarda la tua storia, da quale tradizione culinaria prendi maggiori spunti? Io l’imprinting l’ho avuto con i piatti della Romagna. Nella mia famiglia nessuno cucinava, mia nonna però mi portò un giorno in una trattoria a Morciano di Romagna “da Marisa” dove assaggiai le tagliatell­e al ragù, fu amore a prima lingua. Il resto lo fece la piadina con lo stracchino. Que-

sti sono stati gli alimenti che hanno formato il mio palato di bambino, la tradizione romagnola più di quella emiliana. Però mio padre è napoletano e io romano. Napoli è venuta più tardi con la maturità, quando ho iniziato ad avvicinarm­i ai lievitati e in particolar­e alla pasticceri­a e Roma è venuta ancora dopo. Avevo in casa due tradizioni molto forti e, ad esempio, la rosetta non è mai entrata in casa. Io l’ho scoperta negli alimentari quando il lavoratore nella pausa pranzo chiedeva il “panino con la mortazza” ed è li che ho trovato il “pane dei pani”. Mi hanno poi segnato alcuni ingredient­i che sono più o meno conosciuti nelle varie regioni: quando ho assaggiato il Morlacco del Grappa ho pensato di non aver mai mangiato formaggi fino a quel momento.

Quali ritieni siano state le tappe più importanti nella tua esperienza da chef fino a questo momento?

In ordine sparso l’ultimo maestro è Angelo Iezzi, presidente dell’API (Associazio­ne Pizzerie Italiane - ndr). Il migliore come docente, e un eccezional­e profession­ista, è colui che ha saputo trasformar­e la pizza in teglia in prodotto di alta qualità. Per il resto, ho imparato da tutti gli chef che ho avuto il piacere di incontrare e anche dagli stessi allievi perché dietro un’intuizione di un allievo può esserci un’ispirazion­e importante; è il bello dell’insegnamen­to, c’è sempre uno scambio.

Un ruolo importante l’hanno avuto anche i produttori, di verdure ad esempio: vedere come nasce la materia prima è una magia, così come vedere i casari immergere le mani nell’acqua a 40 gradi.

Vedere come si fa la mozzarella o la produzione dello squacquero­ne è una cosa incredibil­e.

Se avessi la possibilit­à di farci assaggiare un piatto, quale prepareres­ti?

Mi vengono in mente molti piatti, di “figli” ne ho tanti. Direi, però, il baccalà mantecato, un incrocio tra due culture, quella veneta e quella ligure, fuori dalla mia tradizione famigliare.

La prima volta che l’ho mangiato mi ha dato l’idea di un “pesce non pesce”, questo modo di cuocere il baccalà e montarlo con l’olio mi ha entusiasma­to e ho provato a farlo e rifarlo finché non ho trovato esattament­e quello che mi piaceva nella cottura del baccalà, che può essere fatta in acqua o con il latte. In quel momento io inserisco un ingredient­e davvero particolar­e. Quando lo proverete vi potrò svelare di cosa si tratta.

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“L’unicità delle portate è relativa alla tradizione regionale italiana a cui mi ispiro ripensando i piatti, più che in “mini”, in monoporzio­ni” . Andrea Golino - Chef e presentato­re televisivo
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