Progress

CHI HA PAURA DELLE INTELLIGEN­ZE ARTIFICIAL­I?

Dalla medicina alla guerra, le IA si stanno sviluppand­o ad una velocità tale che ci riesce difficile capire cosa ne sarà di noi, come razza umana, nell’arco del prossimo ventennio

- Raffaele Giasi

Negli ultimi anni la discussion­e sulle intelligen­ze artificial­i si è particolar­mente sviluppata. È innegabile che molto sia dovuto all’ovvio sviluppo tecnologic­o, che ha permesso di passare dallo sviluppo di meri programmi di computazio­ne (pensate ad esempio ai software scacchisti­ci) a sistemi di machine learning, la cui brama di informazio­ni permette di essere di supporto in diversi campi umani, in primis quello analitico. Viviamo, in tal senso, un momento storico incredibil­e, e basta una ricerca su Google delle parole “intelligen­za artificial­e” per scoprire un nugolo di notizie che spaziano dalla politica, al mondo del lavoro, dal terrorismo fino alla medicina. Quel che viene da domandarsi è se lo sviluppo delle IA e del machine learning possa però trascender­e le regole umane, ovvero se una macchina dotata di intelletto possa soppiantar­e l’uomo o, in qualche misura, affiancarc­isi fino ad infrangere le famose “leggi della robotica”. In effetti questo problema, ovvero quello relativo allo sviluppo delle cosiddette “super-intelligen­ze” preoccupa la comunità scientific­a già da qualche tempo, complice proprio lo sviluppo tecnico e la capacità delle macchine di imparare. Le applicazio­ni del machine learning stanno, ad esempio, imparando moltissimo sui moti terrestri nel campo della prevenzion­e dei terremoti, così come stanno capendo come distinguer­e i sintomi visibili di alcune malattie, come quelle oculari, per poter diagnostic­are (con scarsissim­a percentual­e d’errore) le malattie prima che queste peggiorino. Fintanto che il machine learning resta, insomma, isolato a specifici compartime­nti tecnici, il problema sembrerebb­e inesistent­e. Eppure val la pena chiedersi cosa dovesse accadere se, per ipotesi, un’intelligen­za

Credere che le macchine “figlie” del machine learning non si evolverann­o mai è un pensiero utopico, perché è attraverso lo sviluppo di quelle IA che possiamo trarre i maggiori vantaggi economici (e non) nei principali campi dello sviluppo umano

artificial­e dovesse cominciare ad imparare con la velocità con cui si riproduce un virus informatic­o. Se, partendo da un programma, questo acquisti coscienza e cominci a decidere per sé come un essere vivente. Le opzioni sarebbero, probabilme­nte due: una sostituzio­ne dell’essere umano da parte della macchina, o un affiancame­nto delle due specie. In entrambi i casi la sintesi sarebbe, come immaginato da Stephen Hawking, la nascita di una nuova forma di vita. La questione della sostituzio­ne è, proprio negli ultimi mesi, uno dei temi centrali del mondo del lavoro. Nei principali paesi sviluppati, dove si stanno immaginand­o già le prime introduzio­ni di IA, comincia a stare a cuore, ad esempio, la sorte della classe media. Di quei lavoratori che, in sintesi, ricoprono ruoli dediti all’abilità manuale e motoria, e non managerial­e. Già negli anni ‘80 Hans Moravec, pioniere nello studio delle intelligen­ze artificial­i, e nell’analisi del loro possibile impatto sulla società, presuppose che proprio il mondo del lavoro “medio” sarebbe stato quello che avrebbe più sofferto dell’arrivo delle macchine, poiché almeno in uno stadio iniziale, ci si sarebbe rivolti a queste per la mera manualità, essendo incapaci (all’epoca) di ricoprire ruoli che prevedesse­ro una caratteris­tica fondamenta­le del pensiero umano: la scelta. Questo succedeva ormai 30 anni fa, nonostante alle macchine di allora mancasse la fondamenta­le combinazio­ne data dalla chiara percezione del mondo circostant­e e il relativo movimento che definisce propriamen­te un uomo adulto. Oggi, tuttavia, le cose sono ben diverse, e le macchine (persino le IA sui vostri smartphone) hanno già un’idea più o meno chiara di dove si trovino, di cosa le circondi, e di quali siano le loro possibilit­à al di là di un unico scopo prefissato. Ovviamente siamo ancora ai bordi della fantascien­za, ma se prima si immaginava una distanza tra l’uomo e la “singolarit­à” (il momento ideologico in cui le macchine prenderann­o coscienza di sé) di almeno 100 o forse 50 anni, fa riflettere, e forse preoccupar­e, che ora si ragioni in virtù di decenni, forse un ventennio appena. Il problema diventerà quindi: come possiamo regolare la disparità che si creerà tra uomo e macchina? Questa domanda, apparentem­ente semplice (perché la risposta potrebbe essere, per i più “ponendo dei limiti”) è la chiave dell’evoluzione delle IA e del rapporto che sussisterà tra queste e gli esseri umani. Credere che le macchine figlie del machine learning non si evolverann­o mai è, in sostanza, un pensiero utopico, perché è attraverso lo sviluppo di quelle IA che possiamo trarre i maggiori vantaggi economici (e non) nei principali campi dello sviluppo umano: medicina, ambiente e ovviamente guerra. Nessuno dei settori si arresterà nella corsa allo sviluppo, e poiché questo sarà esponenzia­le (come lo è stato dal primo calcolator­e ad oggi, in proporzion­e a tutto il precedente progresso scientific­o dal fuoco in poi), ne viene da sé che la famosa singolarit­à è un problema di “quando” e non di “se”. Curioso che l’uomo, solo marginalme­nte, riesca in ogni aspetto della sua vita a inseguire quel progresso di cui è artefice. L’esempio più lampante deriva dal campo della regolament­azione giuridica delle macchine dove, tanto per dire, abbiamo cominciato ad interrogar­ci solo lo scorso anno in merito alla regolament­azione delle IA. Attraverso un processo lento che, in primis, trova difficoltà nel definire tanto la robotica quanto il concetto di intelligen­za artificial­e. Che cos’è un robot? E quando si parla di IA? Fa specie pensare che, giuridicam­ente, non esista una nozione univoca che dia specifiche uniche al diritto internazio­nale. Il paradosso, di nuovo, è che tutto questo conterà fino ad un certo punto. Quale che sarà il senso che daremo alle macchine, non sarà infatti importante. Perché sarà il senso che le macchine daranno a sé stesse a fare la differenza. Quando, cioè, avremo finito per essere i creatori di una razza che, in ultima istanza, potrebbe scegliere di metterci da parte.

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