Chi l’ha detto che la spiritualità è solitudine e silenzio?
Rito sacro è raccoglimento, riflessione, quiete, morigeratezza, o almeno questo ci suggerisce il nostro immaginario di occidentali. E sempre nel nostro immaginario di occidentali, irrimediabilmente contaminato dalla retorica da bestseller alla “Mangia, prega, ama”, l’India rappresenta proprio quell’idea di spiritualità tutta ripiegata sulla meditazione e sulla scoperta di sé, sul vivere con lentezza e assaporare il silenzio. Eppure se guardiamo liberi dalla fascinazione new age alle immagini che ci arrivano da quella che oggi è una tecno-potenza mondiale, capiamo che la realtà è tutt’altra. Non migliore o peggiore, semplicemente diversa. Capiamo che in India si può ritrovare se stessi anche in mezzo agli altri, si può vivere una profonda spiritualità anche immersi nel caos, si può continuare a essere visceralmente legati alla religione e alle tradizioni millenarie, pur non essendo più un paradiso hippie.
A insegnarcelo il Kumbh Mela, il più grande rito religioso del pianeta. Dal 15 gennaio sono quasi 120 milioni i pellegrini accorsi per il rito di purificazione dai peccati che quest’anno si tiene a Prayagraj, nello stato dell’Uttar Pradesh, precisamente nel punto in cui si uniscono le acque dei fiumi Gange, Yamuna e del mitologico Saraswati.