LA MIA FILOSOFIA IN CUCINA
Riccardo Camanini, del ristorante Lido 84 di Gardone Riviera, è stato insignito del premio “One To Watch” durante l’ultima edizione del World’s 50 Best Restaurant. Abbiamo parlato con lui della sua cucina che affonda radici solide nella storia e nella filosofia
Se non fosse diventato uno chef, forse, Riccardo Camanini lo avremmo visto dietro qualche cattedra a elargire perle di storia o filosofia.
In effetti il “professor Camanini” lo scopriamo nella sua essenza di chef, perché quelle idee filosofiche che in molti abbiamo studiato sui libri di scuola sono invece una vera e propria guida nel percorso personale, e professionale, di chi ha 47 anni e da 32 ha scelto di stare dietro ai fornelli. Di chi si è scoperto, insomma, quasi un filosofo al servizio della cucina. Non a caso il “debole” dello chef per James Joyce e per il “suo” stream of consciousness lo scopriamo subito, sin dalle prime battute della nostra chiacchierata con il proprietario del ristorante stellato Lido 64 di Gardone Riviera, locale piazzatosi alla 78esima posizione dei migliori ristoranti al mondo.
Prima di parlare di piatti, ricette, preparazioni, chef Camanini (tra i membri di Ambasciatori del Gusto e vincitore del Miele One To Watch Award, il premio dedicato agli astri nascenti della cucina internazionale) ci conduce nel suo mondo fatto di pensieri costanti, ragionamenti perenni e flussi di coscienza, manifestandosi sotto le vesti di professore prima ancora che di chef.
“Da due anni lavoro sul flusso di coscienza emotivo, un pensiero dato molto dalla maturità professionale e personale”.
Riccardo, ogni chef ha la sua idea di cucina. Qual è la tua?
Non ho mai avuto idee chiare, credo che averle sia abbastanza limitante; ma devo dire che negli ultimi due anni sto lavorando sul flusso di coscienza emotivo, un pensiero dato molto dalla maturità professionale e personale. Ho passato la mia vita frequentando accademie molto importanti e il mio percorso di cucina è influenzato dalle mie molte letture. Per me a determinare la personalità di ogni grande chef è la libertà di poter fare e interpretare piatti attraverso un flusso di coscienza che sia legato all’espressione più egoistica legata alla gola. Come lo faccio? Stando sempre di più in cucina e cercando di catturare l’emozione che mi ispira un determinano ingrediente. La base formativa, costruita attraverso lo studio e attraverso le accademie, ovviamente salta fuori e ti veicola in un percorso.
Nella tua idea si nota un’ influenza filosofica e letteraria, con il flusso di coscienza che ci rimanda al pensiero di Joyce. Come riesci a mixare questi due mondi alla cucina? Quello di Joyce è un pensiero che sento molto. Nell’ultima edizione di Identità Golose a Milano ho presentato 14 piatti in 35 minuti e l’ho fatto per non lasciare memorie dei piatti stessi ma per creare un flusso di coscienza e di gola, in cui prevalesse il gusto. Ho voluto creare un vero e proprio flusso gastronomico come Joyce lo creava di idee e concetti attraverso i suoi personaggi.
Ti sei anche dedicato alla riscoperta di ricette dell’antichità. Da cosa nasce questa curiosità?
Dopo i 30 anni ho riscoperto il piacere di leggere e questo mi ha portato a conoscere cose nuove. La mia curiosità mi ha portato a scendere sempre più in profondità e da lì la capacità creativa è ancora più influente. Nei libri antichi, infatti, non sempre sono chiare le tecniche usate e da qui inizia la propria parte creativa. Per esempio nel 1400 per tenere i piccioni al riparo dalle mosche, in assenza di frigoriferi, li ricoprivano di ortiche e da lì pensi “però, che geni, perché non abbiniamo il piccione all’ortica?” e da qui nasce un piatto ispirato all’antichità.
La cucina di oggi cosa trae, e cosa può trarre, da quella degli antichi?
La cucina italiana ha grandissimi tesori. Il fatto di essere stata frammentata ha favorito lo sviluppo di micro territorialità: da qui a 10 km uno stesso prodotto può avere un gusto e un odore diverso ma non per questo risulterà meno buono. Si sono create più personalità gastronomiche e da questo emerge la necessità di approfondire i valori e le tradizioni proprie di tutti i territori. Salvaguardiamo le nostre cose buone, le nostre tradizioni ma soprattutto salvaguardiamo gli artigiani che incarnano dei valori legati all’originalità, e alla non ripetibilità, che non vanno dispersi. In questo senso è molto importante saper ben comunicare questi valori.
Ci spieghi come hai ideato il tuo piatto più celebre, la Cacio e pepe in vescica?
L’idea è nata da una delle mie letture “antiche”. Da un manoscritto risalente al primo secolo di Marco Gavio Apicio, il “De re coquinaria”, in cui spiega come venivano utilizzate delle vesciche di maiale per conservare e trasportare delle carni da una colonia romana all’altra o per fermentare degli ingredienti. Da qui mi sono ispirato per “attualizzare” una tecnica di cottura allacciandomi ad un piatto della cucina popolare romana come la cacio e pepe. Apicio, Roma, Italia: così è nata la Cacio e pepe in vescica.
È sicuramente un piatto che ha alle spalle molti tentativi. Come ricordi la sua sperimentazione?
Abbiamo fatto 4 mesi di prove, solitamente non sto dietro ad un piatto così tanto ma vedevo che la strada intrapresa era buona quindi ho continuato nei miei tentativi. La difficoltà maggiore era il dover, ogni volta, aprire la vescica e dunque interrompere il processo di cottura per controllare lo stato degli ingredienti. Abbiamo dovuto capire quale tipologia di pasta si potesse prestare al meglio a questa ricetta e le quantità più adeguate. Tutto, praticamente, dipende dalle caratteristiche della vescica: il suo spessore, la sua capacità di gonfiarsi, dall’estensione e dall’umidità. È un piatto che vive in un’eterna imperfezione.
L’hai anche portata come prova a Masterchef, come giudichi questa esperienza?
Sono andato a Masterchef spinto dalla curiosità di fare qualcosa di diverso e mi ha stimolato molto vedere come i concorrenti abbiamo approcciato la mia ricetta. Da lì ho guardato in che modo si muovevano per capire se ci fosse qualche passaggio che potesse essere in qualche modo migliorabile. Loro sono andati per flussi propri nell’interpretazione della mia ricetta e devo dire che ho visto e imparato molto da questa esperienza.
Per chiudere, ormai cucina e arte hanno molti punti in comune. Secondo te dove si pone il confine tra questi due mondi? Il confine è molto personale perché ognuno interpreta l’arte, e la cucina, a modo proprio. Personalmente ritengo che il mio sia un lavoro essenzialmente artigianale, perché vado a creare un prodotto che non è eterno ma ha un suo percorso ben definito, che sfocia nel consumo finale ed è legato all’istante. La bellezza anche è un concetto molto soggettivo, quindi tendo a creare dei piatti semplici, non mi interessa molto il bello, il perfetto, il preciso ma più vado avanti e più cerco di essere me stesso. Non vado a inseguire l’esattezza estrema.