GEMINI MAN
Ang Lee raddoppia Will Smith in un thriller di fantascienza tutto volto alla sperimentazione tecnica
“Gemini Man” racconta di un infallibile cecchino che decide di andare in pensione. Qualcuno però non sembra essere d’accordo e comincia a cercare di farlo fuori, scegliendo la più infallibile delle armi: un sé stesso ragazzo
Sono trascorsi più di 20 anni da quando si è parlato per la prima volta di Gemini Man. Era il 1997 quando la Disney affidò la regia del film a Tony Scott, ma il progetto non andò mai in porto per la mancanza di una tecnologia adeguata a rendere credibile la visione di uno scontro tra un uomo e il suo clone più giovane di 30 anni. Negli anni il progetto avrebbero dovuto dirigerlo Curtis Hanson o Joe Carnahan e interpretarlo attori del livello di Harrison Ford, Chris O’Donnell, Mel Gibson, Jon Voight, Nicolas Cage, Brad Pitt, Tom Cruise, Clint Eastwood, Arnold Schwarzenegger, Sylvester Stallone e Sean Connery. Fin quando nel 2016, il progetto è passato a un altro baluardo del cinema degli anni ’90, il produttore Jerry Bruckheimer, che ha trovato la tecnologia digitale adeguata, affidato la regia ad Ang Lee (Vita di Pi, La tigre e il dragone) e scelto Will Smith come protagonista. Gemini Man racconta di un infallibile cecchino che decide di andare in pensione. Qualcuno però non sembra essere d’accordo e comincia a cercare di farlo fuori, scegliendo la più infallibile delle armi: un sé stesso ragazzo, allevato dal direttore di un oscuro programma scientifico. Sui cloni e il loro utilizzo la letteratura e il cinema di fantascienza hanno detto già molto e in questo senso i decenni passati dall’avvio del progetto pesano nonostante sia stato riscritto varie volte per aggiornarlo, specie se poi si affrontano i meandri psicanalitici dell’incontro/scontro con sé stessi di cui Lee aumenta peso e profondità calcando la mano sul rapporto padre/figlio, stratificando lo sguardo allo specchio con la responsabilità dell’accudire qualcuno, qualcosa che Lee già raccontò nel poco compreso Hulk, da lui diretto nel 2003. Per il regista taiwanese naturalizzato americano, il vero scontro non è tra i due killer o tra il protagonista e chi lo vuole morto, ma tra due modi differenti di essere padri, quello di Will Smith, costretto dagli eventi a diventare genitore di sé stesso, e quello dell’inflessibile Clive Owen che adotta il primo clone e lo educa come un sergente amorevole.
È interessante notare come, sebbene sia portatore di un senso paterno distorto e paradossale, Lee non riesca a non provare un po’ di affetto e di empatia proprio per il “padre cattivo”, così come quella di
Nick Nolte nel già citato Hulk era appunto una figura
tragica, non solamente malvagia. Con questi padri scienziati Lee evidentemente condivide il pionieristico amore per la sperimentazione scientifica, cosa che Gemini Man è anche prima di essere un film: un esperimento.
Fin dal suo precedente film (lo sfortunato Billy Lynn - Un giorno da eroe), Lee ha cominciato a lavorare su una tecnologia di ripresa in cui i 24 fotogrammi al secondo diventano 120 cercando una fluidità dell’immagine in movimento che sia il più possibile avvicinabile alla visione dell’occhio umano, esaltata poi dalla stereoscopia in 3D, che già da Vita di Pi aveva titillato il suo gusto sperimentale. Gemini Man prosegue la ricerca su questi formati per cercare di abbattere la frontiera tra la percezione dell’immagine cinematografica e quella della realtà: obiettivo evidente soprattutto nelle sequenze d’azione, a tratti stupefacenti, soprattutto l’inseguimento motociclistico in Spagna. Altra frontiera da abbattere è quella del foto-realismo della computer grafica, cercando di rendere credibile un Will Smith ringiovanito
“Gemini Man” cerca di abbattere la frontiera tra la percezione dell’immagine cinematografica e quella della realtà: obiettivo evidente soprattutto nelle sequenze d’azione, a tratti stupefacenti.
digitalmente, riportandone le fattezze a quelle che lo stesso attore aveva nei primi anni ’90 “clonandone” le movenze e la corporeità attraverso una tecnologia che aumenta la sensazione di avere a che fare con un’idea estetica e, diremmo, ontologica che guarda ai migliori videogiochi contemporanei. Lee e il suo nutritissimo comparto tecnico ci riescono quasi sempre: soprattutto nella definizione del viso durante i primi piani del clone, l’impressione è quella di aver fatto un salto nel tempo e di aver trasportato sul set lo Smith di Il principe di Bel-Air.
A fronte di tutte queste frontiere più o meno abbattute, Gemini
Man resta un film sbagliato e vecchissimo: perché se le risorse tecnologiche e le possibilità registiche hanno fatto passi da gigante che Lee e produttori hanno seguito, la regia e la scrittura sono rimaste ferme a quel 1997, portando su di esse tutto il peso degli anni, delle riscritture, dei passaggi di mano. Più che a un clone, Gemini Man assomiglia a un poco evoluto Frankenstein, uno di quei film che alla fine degli anni ’90 avrebbero fatto la felicità di un John Woo in trasferta americana (il perturbante dello specchio rotto e dei viaggi nel tempo e nella memoria, da Face/Off a Paycheck) e che invece oggi sembrano il residuato di un tempo e di un modo di intendere il cinema di fantascienza lontani. Ancora più lontani proprio perché apparentemente fondati sulla ricerca scientifica più sperimentale, come a bearsi del proprio senso teorico, come se il lavoro sulle immagini fosse il solo responsabile della riuscita di un film. Perché poi le immagini vanno montate, dando loro una forza che può anche essere indipendente dalla narrazione (qui debolissima), ma capace di imprimersi nello spettatore attraverso le sequenze, gli spazi, il senso o l’emozione.
Gemini Man, tolti un paio di exploit quasi sporadici, di quelle immagini - che continuano a sembrare quelle di una soap opera, di una telenovela, di una videocamera deluxe come tutti gli esperimenti sulla velocità dei fotogrammi - sembra non sapere cosa farsene, cosa costruire, a chi rivolgersi né come.
Restando un esperimento poco riuscito.