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CATTIVE ACQUE

Uno scandalo mondiale raccontato con efficacia nel film con Mark Ruffalo

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Cattive acque è un film di denuncia vecchio stampo, sulla scia di classici come Sindrome cinese e Silkwood o del recente e sottovalut­ato Promised Land di Gus Van Sant

Ecco un tipo di film che un critico, o almeno chi scrive, trova particolar­mente interessan­te, ovvero i film che non hanno alcuna (apparente) attinenza con la carriera di un regista, con i suoi temi, con il suo modo di girare. Film su commission­e a volte, marchette nella peggiore delle ipotesi, ma che costringon­o a chiedersi cosa ci sia in quel film di ciò che conosciamo - o pensiamo di conoscere - di quell’autore. Cattive acque, nelle sale dal 20 febbraio, è il nuovo film di Todd Haynes, regista di film a sfondo musicale come Velvet Goldmine e Io non sono qui oppure di melodrammi retrò come Lontano dal paradiso e il capolavoro Carol. Cattive acque è invece un film di denuncia vecchio stampo, sulla scia di classici come Sindrome cinese e Silkwood o del recente e sottovalut­ato Promised Land di Gus Van Sant, uno di quei film solidi, quadrati e classiciss­imi che non c’entrano nulla con il percorso di Haynes. La curiosità così si accende: cosa c’è in questo film da convincere il suo regista a realizzarl­o? Il film racconta una storia vera, quella dell’avvocato Bilott, esperto nella difesa delle aziende chimiche che sul finire degli anni ’90 diventa il paladino nella causa contro una di queste aziende, la DuPont, colpevole di aver inquinato impunement­e i corsi d’acqua e i terreni sversando i rifiuti della produzione di acido perfluoroo­ttanoico, ossia il teflon di cui Bilott proverà la tossicità, portando alla malattia e alla morte migliaia di persone e capi di bestiame. Uno scandalo che ha risonanze ancora oggi, un processo durato anni e una giustizia ancora non proprio chiara: Cattive acque racconta questa vicenda inquietant­e come un dramma civile e legale, giocando però soprattutt­o - e sta qui l’interesse per il regista - sulle sfumature.

Tutto nasce dall’interesse di Mark Ruffalo, il protagonis­ta del film e attivista per cause civili e ambientali, per l’articolo “The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare” di Nathaniel Rich pubblicato dal New York Times Magazine: da qui la messa in piedi della produzione partendo dalla sceneggiat­ura di Mario Correa e Matthew Michael Carnahan e il coinvolgim­ento di Haynes alla regia. Haynes quindi, autore tra i più personali e originali del cinema statuniten­se recente, si mette al servizio di un progetto, lo realizza con profession­alità cercando di coinvolger­e lo spettatore, di indignarlo, di farlo appassiona­re a una vicenda che probabilme­nte ci portiamo ancora dentro casa, nelle nostre pentole antiaderen­ti, se è vero come recitano le didascalie finali che è probabile che il 99% di esseri umani abbia del PFOA nel sangue. Qui però sta l’interesse di chi guarda il film non solo per godersi una storia interessan­te: Haynes mentre fa il massimo per narrare nel migliore dei modi si prende i suoi spazi e i suoi tempi per approfondi­re ciò che da autore gli è sempre interessat­o, ovvero la consistenz­a potremmo dire “pittorica” delle atmosfere e ovviamente le sfumature umane

dei personaggi. Si pensi per esempio alla prima sequenza, quella che accompagna i titoli di testa, che pare l’inizio di un film horror con dei ragazzi spensierat­i che vanno a fare il bagno notturno al lago: la cadenza dei tempi, la suspense sottile, i fumi che salgono da quel lago. E di fatto, a pensarci bene, Cattive acque è un horror e Haynes ci gioca parecchio con questo doppio senso filmico, soprattutt­o quando descrive la realtà rurale devastata da quelle acque, con la popolazion­e ridotta come dei sopravviss­uti a un’epidemia zombie, tra tumori, deformazio­ni e denti neri. Dall’altro lato, Haynes si preoccupa parecchio di non farsi prendere dalla frenesia del dramma giudiziari­o (e infatti il finale è la parte meno riuscita del film) e si concentra sulla descrizion­e dei personaggi, costruendo un mondo rurale che sembra uscire dal cinema recente di Clint Eastwood, fatto di “cittadini bianchi” conservato­ri, gente comune che finisce in situazioni eccezional­i suo malgrado, legata a vecchie tradizioni e valori morali e che si trova schiacciat­a dal potere delle istituzion­i. Sta qui probabilme­nte il cuore del film, nell’illuminare in modo agghiaccia­to il ricatto morale del capitalism­o deregolato, che chiede ai governi di scegliere tra salute e lavoro, un ricatto che viviamo anche sulla nostra pelle italiana, basti pensare all’Ilva. Anche il confronto tra la borghesia conformist­a e una classe media lontana dai privilegi è un tema che non è estraneo a Haynes e che in Cattive acque viene raccontato con lo stesso tono pudicament­e commosso di film come Lontano dal paradiso; il resto è un film cosiddetto medio, solido e aperto a un pubblico più ampio rispetto a quello che ama i film del regista, realizzato per tre quarti con una cura del racconto precisa. Però, siamo sinceri, alla fine resterà nella memoria per la prova di Ruffalo, che costruisce il personaggi­o di Bilott su un’espressivi­tà timida, remissiva ma sorniona, appassiona­ta ma quasi messa in disparte. La sua personale cifra d’attore fuori dai fuochi d’artificio di Hulk.

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 ??  ?? L’AUTORE: EMANUELE RAUCO
Critico e giornalist­a cinematogr­afico multimedia­le, attivo dal 2006 sul web per poi passare alla carta stampata, alla radio, alla tv e al video su YouTube. Scrive per La rivista del Cinematogr­afo, Il mucchio selvaggio,
Il sussidiari­o e collabora con varie testate. Selezionat­ore dal 2016 per la Mostra del Cinema di Venezia e curatore dei festival di Catania e Formia, ha una passione per l’uso critico dei social network e la convinzion­e che possano generare contenuti e non solo rumore.
L’AUTORE: EMANUELE RAUCO Critico e giornalist­a cinematogr­afico multimedia­le, attivo dal 2006 sul web per poi passare alla carta stampata, alla radio, alla tv e al video su YouTube. Scrive per La rivista del Cinematogr­afo, Il mucchio selvaggio, Il sussidiari­o e collabora con varie testate. Selezionat­ore dal 2016 per la Mostra del Cinema di Venezia e curatore dei festival di Catania e Formia, ha una passione per l’uso critico dei social network e la convinzion­e che possano generare contenuti e non solo rumore.

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