QUELLA VITTORIA SULLA GRAN RISA
Si dice che le cose belle della vita non si vedono con gli occhi, ma si sentono con il cuore. Trentaquattro anni dopo, quello di Richard Pramotton batte ancora forte mentre ripercorre il gigante dell’alta Badia.
Si dice che le cose belle della vita non si vedono con gli occhi, ma si sentono con il cuore. Trentaquattro anni dopo, quello di Richard Pramotton batte ancora forte mentre ripercorre il gigante dell'Alta Badia davanti a un caffè e a qualche pensiero offuscato.
Bello pensare che il trionfo sulla Gran Risa del 1986, in una giornata a forti tinte azzurre con la tripletta completata da Alberto Tomba e Oswald Totsch, resti un qualcosa di interiore o un ricordo riservato a chi quelle stagioni le ha vissute. Oddio, di tempo ne è passato. Qualche domanda, lo stuzzichiamo e nelle pagine della sua storia sportiva trova spunti interessanti, che passano essenzialmente da una parola: cambiamento. La Gran Risa di ieri e di oggi è davvero diversa da affrontare e ancor prima di entrare nello specifico dice: «Prendi le classifiche e guarda i tempi, pensa che noi partivamo anche più in basso».
Due minuti e quarantacinque secondi sono quelli impiegati da Richard, uno e cinquantasette il tempo di Henrik Kristoffersen nell'ultima edizione (accorciata), due e trentadue di Marcel Hirscher due stagioni fa. E allora mettendo nel cassetto il crono del norvegese, in mezzo restano tredici secondi e un'evoluzione mostruosa. «La preparazione degli sciatori, quella delle piste, l'attrezzatura - dice - c'è stata una rivoluzione: ora vanno il doppio più veloce, noi mettevamo gli sci di traverso». Gli atleti di oggi utilizzano la tecnica e un fisico preparato nei dettagli, all'epoca della Valanga Azzurra, in quegli anni seguita da Tino Pietrogiovanna, prevaleva la destrezza ricorda Richard, valdostano di
Courmayeur, oggi 56 anni. E poi non c'erano ancora gli impianti per la neve programmata ed erano agli inizi con la barratura. «Se nevicava? Era tutto molto più faticoso e basta». Lo dice come se fosse la normalità. Lo era una volta, non lo è più oggi, lo dimostrano le polemiche, sterili o giustificate che siano, che gli atleti proprio nel mese di dicembre hanno lanciato sui social. I materiali sono stati stravolti in tutto e per tutto. Nella forma, nelle prestazioni, nel lavoro che c'è dietro a sci e scarponi. «Io sciavo con un paio di scarponi, andavano bene su ogni pendio e ogni tipo di neve. Di sci ne avevamo ben tre o quattro per disciplina, ma quando trovavo quello giusto si utilizzava dalla prima all'ultima gara, a meno che non ci fossero rotture di vario genere». Fantascienza, oggi. Chi vince in Coppa del Mondo è perché lavora sul dettaglio. E per dettaglio si intende anche trovare la giusta combinazione sci-attacco-piastra-scarpone per la Gran Risa, la 3-Tre, la Streif… Per le nevi europee e quelle americane, per la gara di dicembre e quella di marzo. Maestro, in tal senso, Marcel Hirscher, che si dice facesse più ore a testare che ad allenarsi per davvero. «Provano, provano e provano ancora, quando sono in pista hanno sempre diversi sci e scarponi». Grandi differenze e non solo quei tredici secondi tra la gara trionfale di Richard Pramotton e l'ultima Gran Risa di Marcel Hirscher.