la favola di COCHRAN-SIEGLE
Appartiene alla famiglia plu influente dello sci americano, è il più giovane della seconda generazione e il più talentuoso, diceva nonna Ginny. Ci aveva visto lungo: Ryan Cochransiegle, velocista con un debole per il gigante, classe '92, quest'inverno ha conquistato il suo primo podio in Val Gardena e la sua prima vittoria a Bormio, ma poco dopo ha terminato la stagione a Kitzbühel a causa di una frattura cervicale. La favola di Ryan inizia proprio dai nonni materni.
Nel 1960 Mickey e Ginny Cochran costruirono il loro sogno, letteralmente: per diecimila dollari trovarono una casa nell’alto Vermont con una collina adiacente dove Mickey sistemò una piccola manovia. L’obiettivo era trasmettere la passione per lo sci ai loro quattro bambini, e non solo: offrire alle famiglie del Vermont un luogo semplice, ma intriso di passione dove i ragazzi imparassero a sciare nel dopo scuola, e renderlo accessibile a tutti. Tuttora la Cochran Ski Area rimane una no-profit gestita dalla famiglia con la medesima missione. Lo sbarramento posto da nonno Mickey per accedere agli impianti era severo: ci si doveva divertire. Nascevano così the Skiing Cochrans, una dinastia che da due generazioni riempie le fila della squadra nazionale americana. Mickey, ingegnere di professione e visionario per natura, insegnò a sciare ai suoi quattro figli; ognuno di loro andò alle Olimpiadi e Barbara Ann, mamma di Ryan, vinse l’oro a Sapporo ’72. Anche Ryan, come tutta la sua famiglia, cominciò a sciare alla manovia all’età di due anni, e lì conserva la sua prima memoria sciistica. «Aveva nevicato dieci centimetri, un vero e proprio powder day per me. Stavo sciando con i miei cugini più grandi che avevano costruito un salto accanto alla manovia. Io li ho seguiti, ricordo di aver preso troppa velocità ed elevazione e all’atterraggio ho avuto la sensazione di essermi rotto la caviglia. Le lacrime erano pronte a uscire, ma i miei cugini mi diedero una scossa, smettila, non ti sei fatto niente, dissero. E così ho continuato a sciare con i grandi, fingendo di star bene. Era questo lo spirito da noi, godersi quello che avevamo anche quando gli allenamenti erano cancellati per neve». I cugini sono stati fondamentali nella formazione di Ryan, che debuttò in Coppa del Mondo nel 2012, a 19 anni. In sei entrarono nella squadra americana, il più vecchio ha dieci anni in più di Ryan mentre il più giovane, Robby Kelley, a cui è molto legato, ne ha due in più. Ryan ereditava caschi e giacche della nazionale dai cugini e voleva solo essere come loro. «Ho sempre guardato a Robby. Vedere quanto talento avesse mi faceva venire voglia di essere bravo quanto lui. Quando ero piccolo non lo battevo mai, ma solo l’idea di farlo era una grossa spinta, e così era anche per Robby», che vanta due partecipazioni ai Mondiali e il titolo di campione americano di gigante nel 2012.
La cena del Thanksgiving (giorno del ringraziamento), che in America è più sentita del Natale, a casa Cochran assomiglia di più a un gala di ex-olimpionici. «Mi dà una prospettiva, mi fa capire che quello che ho fatto non è poi cosi spettacolare, tanta gente lo fa. Mi piace questa
normalità, mi tiene equilibrato e umile», spiega RCS, come lo chiamano i suoi compagni. Nonostante il ricco palmarès famigliare, non si respirava mai pressione alla Cochran Ski Area. «In famiglia diamo valore alla nostra storia con lo sci alpino, ma invece di vederla come una pressione esterna, l’ho sempre vista come una possibilità: se lavoro sodo e ci provo per davvero, ecco dove posso arrivare. Per qualche strana ragione tutti noi cugini siamo molto competitivi per natura». Ryan e Robby hanno condiviso anni in squadra nazionale, fino a quando Robby lasciò la squadra per sciare come indipendente.
«L’ho sempre visto come mio fratello, come il mio migliore amico con cui condividere tutto. È stato strano quando ha lasciato la squadra. L’ultima volta che abbiamo sciato insieme è stata la scorsa primavera durante il primo lockdown, alla Cochran Ski Area. Era tutto chiuso ma c’era ancora neve, quindi abbiamo messo giù un po’ di pali da slalom e fatto qualche giro, risalendo a piedi con gli sci in spalla. Io e Robby ci inventiamo sempre cose divertenti da fare».
Parlando con Ryan spicca la sua maturità, l’equilibrio e la razionalità. È come se avesse già avuto un assaggio della sua vita attraverso i racconti di zii e cugini che lo hanno preceduto. Arrivato il suo turno, Ryan si è fatto trovare pronto, al cancelletto di partenza, con le idee chiare.
«Il successo è divertirti in quello che fai, essere presenti, a prescindere dal risultato o dai numeri». Gli obiettivi troppo concreti non funzionano con Ryan in quanto gli creano pressione. Lui pensa alle piccole cose, si pone un obiettivo ogni giorno e si concentra sulla sciata. Il secondo posto in Val Gardena coglie tutti di sorpresa, compreso Ryan, che fino ad allora aveva mostrato di poter dire la sua su terreni più tecnici e ripidi della Saslong. «Parte del successo viene da una mancanza di aspettative, è una pista divertente ma è anche molto difficile andare veloci. Al contrario, ho sempre visto Bormio come il posto dove poter esprimermi al meglio. Sapendo che dopo la Val Gardena c’era Bormio, ero già concentrato su quest’ultima gara». Così si presenta in Valtellina con un podio già in saccoccia, dunque prende la gara con più leggerezza e arriva il successo. «Vincere è bello, ma si crea talmente tanta aspettativa che quando succede davvero è diverso da quello che ti aspettavi». RCS fatica ancora a crederci, o meglio fatica a vedere se stesso come uno che
ha vinto in Coppa del Mondo, perché in fondo, dice «sei sempre la stessa persona. Devi comunque trattare la gente con rispetto e fare le cose che facevi prima. Non è un lasciapassare. So che a 40 anni sarò alla Cochran Ski Area a servire pancakes e sciroppo d’acero, e quelli saranno i numeri che contano, non i miei risultati», sorride Ryan, pensando all’attività di produzione di sciroppo d’acero del cugino Tim Kelley, che sorge proprio a fianco della pista e prende il nome di Slopeside Syrup.
Contrariamente alle discipline veloci, in gigante quest’anno non ha mai trovato la quadra, ottenendo come miglior piazzamento un dodicesimo posto. In Alta Badia finisce ventinovesimo, una doccia fredda. «Lì ho capito che quello che stavo facendo in questa disciplina non era abbastanza per essere competitivo». Mollare il gigante per concentrarsi sulla velocità? «Non sono ancora pronto, la chiave è vedere ogni gara come un’opportunità. Anche se non ti senti al top devi comunque presentarti e dare il massimo. Solo la stagione intera è la vera rappresentazione di uno sciatore, la media dei tuoi giorni migliori e di quelli peggiori. Non puoi identificarti nella gara della vita, associando a quella il tuo valore. Se fai un’ottima gara e nove brutte, la tua media sarà piuttosto mediocre». Si vede che studia ingegneria: la sua è un’analisi razionale, quasi matematica, non quello che ti aspetti da un ragazzo che ha appena conquistato i suoi migliori risultati. «Devi trovare valore dentro di te, in come tratti le persone, non in un numero». Tuttavia non è stato sempre così. Queste parole sono il frutto di una crescita costante per conoscere lo sport e se stesso. «Nel 2017 a Sankt Moritz, sentivo che stavo sciando bene ma i risultati non arrivavano ed ero arrabbiato, frustrato.
Da lì ho capito che rabbia e frustrazione non funzionano. Legare troppe emozioni allo sci è un limite. Ora cerco di vedere il tutto in maniera olistica, e questo mi ha aiutato. In Gardena, mentre ero all’arrivo ad aspettare le premiazioni, mi sforzavo di pensare: questa è una bella giornata, ma domani farà schifo. Ricercavo l’equilibrio anche in quel momento di felicità, per sopravvivere a una stagione intera fatta di alti e bassi. Infatti, quando mi sono infortunato a Kitz, questo approccio mentale mi ha permesso di accettare tutto con maggiore facilità. Grazie ai successi che ho portato a casa la mia visione complessiva è buona».
«Il successo è divertirti in quello che fai, essere presenti, a prescindere dal risultato o dai numeri».
Tutto è partito da due manovie e un’ancora della Cochran Ski Area. È un posto speciale per Ryan, che dai 2 ai 15 anni passava intere giornate con gli sci ai piedi, così come per il resto della sua famiglia. Le montagne del Vermont assomigliano alle nostre colline, pendii dolci, bassa vegetazione, e tra queste la Cochran’s è una delle meno imponenti. Non solo questo non è stato un limite, ma è diventato un punto di forza nella crescita di Ryan. «Ho imparato ad amare questo sport nella sua forma più pura, senza dare nulla per scontato. Fare il più possibile con quello che si ha e trovarci gioia. Questa mentalità ha portato lontano» dice Ryan, che da piccolo era felicissimo quando invece di aggrapparsi alla manovia si accomodava su una seggiovia. Tecnicamente, alla Cochran’s ha costruito i fondamentali, lavorando in controllo per affinare i movimenti di base. RCS ha sempre visto la montagna, piccola o grande che sia, come un luogo da esplorare.
Non c’erano dubbi che Ryan sciasse fino all’ultima corsa della manovia. In gioventù ha esplorato ogni centimetro di pista ed estremità di bosco, facendo slalom tra gli alberi, salti, e sfide a kilometro lanciato. «Ogni montagna nuova dove andavo era una un’opportunità per conoscere posti diversi. Anche quando sono entrato in squadra (nel 2010) e ho cominciato a sciare nelle montagne della costa ovest, ho continuato a esplorare e sciare fino a tardi. Quando iniziavo a conoscere un posto, c’era un nuovo mondo da conquistare e così non mi annoiavo mai. Ho mantenuto una gratitudine profonda per i luoghi in cui mi trovavo ogni giorno». Tuttavia gli mancava l’allenamento sui pendii ripidi, da cui era intimorito, sapendo che alla Cochran’s lavorava sullo scivolamento. «Riconoscendo i miei punti deboli, ho lavorato tanto per migliorare su terreni più tecnici e difficili». La sua debolezza diventa la sua forza: RCS ora si sente al massimo quando le situazioni sono difficili. Non per nulla Bormio e Kitzbühel sono tra le piste preferite. Come se la difficoltà delle discese non bastasse, Ryan ci mette del suo: limita la visibilità della maschera per imparare a fidarsi di più. Dunque scia nelle prove con una lente scura quando il cielo è velato, e addirittura lascia la pellicola sulla lente quando il cielo è sereno: «Così mi concentro sulle sensazioni e imparo a spingere anche quando in gara c’è una luce piatta».
RCS ha condiviso gli inizi della sua carriera con alcune leggende dello sci americano: Bode Miller, Marco Sullivan, Andrew Weibrecht, Steven Nyman, Ted Ligety. Da loro ha imparato tanto, in primis, l’approccio americano a uno sport prepotentemente europeo. Gli americani, come i canadesi, si sentono ancora degli outsiders. «Noi siamo più rilassati, più easy-going. La nostra priorità è divertirci e stare bene con i nostri amici e fratelli, non è fare gli stronzi e vincere». Il suo idolo era Bode, impossibile non essere influenzati da lui, e ancora adesso quando lo vede è emozionato come un bambino. «Da piccolo mi piaceva l’idea di una sciata grezza, il più dritta possibile, mentre crescendo ho apprezzato di più la curva e la sua efficienza, come quella di Ted». Ha legato molto con Ligety, che l’ha aiutato a prendere in mano il proprio percorso e consapevolezza nei suoi mezzi. «Ci sono degli elementi della sua sciata che sono unici. Se provi a sciare come
Ted, Ted ti batterà ogni volta. Ma è bello capire ciò che funziona per lui e provare a replicarlo anche nella tua sciata. Passare tanto tempo con Ted mi ha dato la fiducia di sciare in maniera naturale, senza troppe forzature. Invece di provare a imitare un Ted, un Bode, un Hirscher, ricerco la mia versione di tecnica e tattica per andare forte, seguendo il mio percorso e sviluppo naturale». Questa libertà di espressione sciistica all’interno della squadra si tramuta anche in libertà. «Ci sono tanti modi di sciare e personalità diverse all’interno del team. Siccome siamo tutti diversi abbiamo spunti differenti per progredire come gruppo. Se facessimo le stesse cose, finiremmo per essere mediocri». Anche le linee di Bode, che solo lui riusciva a immaginare, rimangono inimitabili per Ryan. «Ho accettato che le sue non potranno essere le mie». La cultura degli American Downhillers è di tramandare l’esperienza fatta nei templi della velocità a chi viene dopo. Le piste di discesa sono rimaste per lo più invariate, tanto che Ryan ne parla anche con suo zio, uncle Bobby, podio a Kitz nel ’73. «È come un fiume, un continuo passaggio; in questa maniera non devi imparare tutto ex novo. Ora voglio contribuire anch’io».
Una cicatrice sul collo, ma l’assenza di dolore. Un’operazione per riparare le vertebre C6 e C7 e un disco nuovo. A Kitzbühel la vita di Ryan Cochran-siegle poteva cambiare per sempre. È stata questione di millimetri, ma fortunatamente ora la guarigione segue la prassi medica. «Mi sono reso conto di quanto sia fragile il nostro corpo e quanto lo mettiamo a rischio. Devi essere intelligente a proteggere la tua salute, senza far sì che questo limiti le tue esperienze di vita». Nella discesa di Bormio aveva già mostrato la sua attitudine al rischio, riuscendo a rimanere in piedi su equilibri precari.
Lo aveva fatto anche a Pyeongchang, atterrando da un salto completamente sulle code, sterzando all’ultimo, non si sa come. «Fin da giovane ho sempre spinto al limite ed è per questo che sono arrivato fin qui. Ho accettato il rischio, e a Kitz ho pagato per tutti quelli presi fino a quel momento». Ryan pone molta fiducia nelle sue abilità e riflessi, che a Bormio e Pyeongchang non l’hanno tradito, ma comprende che ci deve essere il contesto giusto affinché questo avvenga. «In futuro voglio identificare delle zone di no-fall dove è vietato cadere, ed essere particolarmente attento in quei punti. Sicuramente la traversa di Kitz è uno di quelli». RCS non è estraneo agli infortuni. Nel 2013 cominciò il suo calvario di operazioni alle ginocchia, e fu costretto a uno stop di 17 mesi. In quel periodo ha dovuto staccare la testa dal mondo dello sci, e lo ha fatto concentrandosi sullo studio di ingegneria all’university of Vermont. Similmente, anche quando ha ripreso i corsi, trovandosi circa a metà del percorso, RCS si tiene più porte aperte e non lo spaventa l’idea di laurearsi dopo i 30 anni: ora ha una priorità che non si può rimandare. Così passano le giornate nel Vermont, azionando la manovia, controllando la qualità dello sciroppo d’acero e studiando matematica avanzata.
«Mi è andata bene. Ora sto cercando di guardare avanti e non farmi scoraggiare da pensieri negativi». Il futuro di Ryan brilla, così come brilla il sole di Mammoth Mountain, in California, dove a maggio rimetterà gli sci ai piedi.