felici e connessi
Finalmente una buona notizia. La generazione degli iperconnessi nativi digitali, alias i nostri figli, non è una generazione perduta, anzi. Lo sostiene un nuovo libro, Gli indaffarati, che già nel titolo sembra voler controbattere a Gli sdraiati di Michele Serra, uscito tre anni fa. A scriverlo, è il critico letterario Filippo La Porta (ne parliamo a pag. 24). La tesi è che i nati dal 1996 in poi siano molto più impegnati di quanto possiamo immaginare. Il fatto che non leggano libri di carta non significa che siano inebetiti e acritici. Quel loro essere incollati a un device elettronico non è passività, bensì un nuovo modo di vivere la socialità. Lo aveva già detto Danah Boyd, sociologa americana che due anni fa rispondeva così alle domande dei genitori: perché i miei figli sembrano incatenati al cellulare? Dipendono dalla tecnologia o stanno semplicemente sprecando tempo? «La maggior parte di loro non è costretta a comportarsi così dall’oggetto di per sé: è costretta dall’amicizia. Il dispositivo diventa interessante per loro soprattutto perché ha un fine sociale», scriveva la studiosa. Di recente, c’è un’altra accusa che viene mossa ai nativi digitali. E cioè quella di maneggiare con disinvoltura gli strumenti digitali senza conoscerne il reale funzionamento. Anch’io uso l’auto senza sapere come funziona. E allora perché un ragazzo dovrebbe interessarsi all’algoritmo che c’è dietro a un motore di ricerca se nessuno gli dice che è importante conoscerlo? Demonizziamo le tecnologie ma poi ci rifiutiamo di spiegarle. Probabilmente perché ci sentiamo in difetto. Osserviamo la scioltezza con cui i nostri figli si muovono in spazi dove noi fatichiamo a orientarci e rinunciamo a spiegare loro quel poco, ma fondamentale, che sappiamo. E cioè cosa succede quando un pensiero viene affidato alla rete invece che a un amico. Come si fa a distinguere una fonte attendibile da una meno. Abbiamo qualcosa da insegnare anche in questo. Non perdiamo l’occasione per farlo…