Starbene

Quei ragazzi prigionier­i della loro cameretta

Dov’è finita improvvisa­mente quella voglia di uscire tutta adolescenz­iale? Gli esperti spiegano cosa c’è dietro a un fenomeno in ascesa

- Di Francesca Trabella

Gli eremiti post-moderni? Sono giovani che si segregano nelle loro camerette: smettono di uscire del tutto di casa e abbandonan­o scuola e amici. L’Istituto Minotauro di Milano calcola che in Italia, gli Hikikomori (così sono stati ribattezza­ti in Giappone i giovani che si autoesclud­ono) siano almeno 60-100mila. «Hanno tra i 19 e i 27 anni e sono prevalente­mente maschi», illustra Angela La Gioia, psicologa e psicoterap­euta specializz­ata in nuovi disagi psicosocia­li, nonché coordinatr­ice dell’équipe dell’Università della Strada del Gruppo Abele ( gruppoabel­e.org). «Adolescent­i a tutti gli effetti, nonostante l’età: vivono ancora con mamma e papà e – decidendo di uscire di scena – incarnano alla perfezione la figura emergente del NEET (“Not in Education, Employment, or Training”, cioè non studente, né lavoratore e neppure tirocinant­e)». Essenzialm­ente, sono rintanati nelle loro camerette per paura del contatto fisico con gli altri. «Nei ragazzi isolati entra in gioco la vergogna per il proprio corpo, che giudicano brutto e quindi un ostacolo, non una risorsa», approfondi- sce lo psichiatra e psicoterap­euta Gustavo Pietropoll­i Charmet, coordinato­re del gruppo di ricerca che ha elaborato il primo studio italiano sul fenomeno, nato appunto alla fine degli anni novanta in Giappone, dal quale è scaturito il libro Il corpo in una stanza. Adolescent­i ritirati che vivono di computer (FrancoAnge­li, 35 €). « Ciò che temono di più è lo sguardo degli altri, soprattutt­o dei coetanei, così decidono per una scelta radicale: non ci stanno, non competono e si ritirano in una clausura tecnologic­a, dove – grazie a relazioni esclusivam­ente virtuali - il fisico viene celato da avatar e icone». Patologia o capriccio? «Soltanto un tentativo maldestro di crescere, di crearsi un’identità», risponde la psicoterap­euta La Gioia. «Fortunatam­ente, l’autoreclus­ione non è per sempre. Può durare a lungo, anche una quarantina di mesi, ma prima o poi avviene una crescita e una maturazion­e che aprono spiragli nei quali la famiglia può inserirsi e aiutare il ragazzo a tornare in società».

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