Quei ragazzi prigionieri della loro cameretta
Dov’è finita improvvisamente quella voglia di uscire tutta adolescenziale? Gli esperti spiegano cosa c’è dietro a un fenomeno in ascesa
Gli eremiti post-moderni? Sono giovani che si segregano nelle loro camerette: smettono di uscire del tutto di casa e abbandonano scuola e amici. L’Istituto Minotauro di Milano calcola che in Italia, gli Hikikomori (così sono stati ribattezzati in Giappone i giovani che si autoescludono) siano almeno 60-100mila. «Hanno tra i 19 e i 27 anni e sono prevalentemente maschi», illustra Angela La Gioia, psicologa e psicoterapeuta specializzata in nuovi disagi psicosociali, nonché coordinatrice dell’équipe dell’Università della Strada del Gruppo Abele ( gruppoabele.org). «Adolescenti a tutti gli effetti, nonostante l’età: vivono ancora con mamma e papà e – decidendo di uscire di scena – incarnano alla perfezione la figura emergente del NEET (“Not in Education, Employment, or Training”, cioè non studente, né lavoratore e neppure tirocinante)». Essenzialmente, sono rintanati nelle loro camerette per paura del contatto fisico con gli altri. «Nei ragazzi isolati entra in gioco la vergogna per il proprio corpo, che giudicano brutto e quindi un ostacolo, non una risorsa», approfondi- sce lo psichiatra e psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet, coordinatore del gruppo di ricerca che ha elaborato il primo studio italiano sul fenomeno, nato appunto alla fine degli anni novanta in Giappone, dal quale è scaturito il libro Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer (FrancoAngeli, 35 €). « Ciò che temono di più è lo sguardo degli altri, soprattutto dei coetanei, così decidono per una scelta radicale: non ci stanno, non competono e si ritirano in una clausura tecnologica, dove – grazie a relazioni esclusivamente virtuali - il fisico viene celato da avatar e icone». Patologia o capriccio? «Soltanto un tentativo maldestro di crescere, di crearsi un’identità», risponde la psicoterapeuta La Gioia. «Fortunatamente, l’autoreclusione non è per sempre. Può durare a lungo, anche una quarantina di mesi, ma prima o poi avviene una crescita e una maturazione che aprono spiragli nei quali la famiglia può inserirsi e aiutare il ragazzo a tornare in società».